ESAME AVVOCATO 2012 SOLUZIONE TRACCIA DIRITTO CIVILE N 1

Traccia n. 1
Caio, cliente da anni della banca X riferisce di aver versato alla stessa, dopo la chiusura di alcuni rapporti di conto corrente con essa intrattenuti fra il 1994 e il 2008, l’importo comprensivo di interessi computati ad un tasso extralegale, e capitalizzati trimestralmente per parte della durata dei suddetti rapporti e successivamente capitalizzati annualmente.
Il candidato assunte le vesti del difensore di Caio, rediga motivato parere sugli istituti e su problematiche sottese alla fattispecie soffermandosi in particolare sulla eventuale prescrizione dell’indebito, sull’anatocismo e sulla pattuizione inerente tasso di interesse passivo
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ANATOCISMO
Con l’espressione anatocismo si descrive la capitalizzazione degli interessi di un capitale allo scopo di renderli a loro volta produttivi di interessi.
Il Codice considera con sfavore tale fenomeno ed esclude, in generale, il computo sugli interessi scaduti di interessi ulteriori (c.d. interessi composti).
Il divieto di anatocismo ha, tuttavia, un valore relativo, giacchè l’art. 1283 prevede talune eccezioni, che ne limitano l’operatività.
Gli interessi scaduti, infatti, possono produrre interessi ulteriori:
– quando vi siano specifiche disposizioni di legge o norme consuetudinarie che lo consentano
– dal giorno della domanda giudiziale
– per effetto di convenzione tra le parti, posteriore alla loro scadenza, sempre che si tratti di interessi dovuti da almeno sei mesi.

La Suprema Corte, con tre sentenze del 1999 , ha mutato radicalmente il suo precedente orientamento dichiarando la nullità delle clausole dei contratti di conto corrente bancario che autorizzavano le banche a capitalizzare trimestralmente gli interessi a carico dei clienti
L’orientamento adottato dalla SC nel 1999 è stato confermato dalle SS UU (Cass., SS UU, 4 novembre 2004 n. 21095) che hanno negato l’esistenza di un uso normativo di capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del correntista bancario prima del nuovo orientamento giurisprudenziale.
Il parametro di riferimento è costituito dall’art.1283 del Cc (Anatocismo) e, in particolare, dall’inciso “salvo usi contrari” che, in apertura della norma, circoscrive la portata della regola, di seguito in essa enunciata, per cui «gli interessi scaduti possono produrre interessi [(a)] solo dalla domanda giudiziale o [(b)] per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre, che si tratti di interessi dovuti da almeno sei mesi».
In sede di esegesi della predetta norma, le richiamate sentenze (2374, 3096, 3845) della primavera del 1999, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con pronunzie del ventennio precedente (6631/81; 5409183; 4920/87; 3804/88; 2444/89; 7575/92; 9227/95; 3296/97; 12675/98), hanno enunciato il principio per cui gli “usi contrari”, idonei ex articolo 1283 Cc a derogare il precetto ivi stabilito, sono solo gli usi “normativi” in senso tecnico; desumendone, per conseguenza, la nullità delle clausole bancarie anatocistiche, la cui stipulazione risponde ad un uso meramente negoziale ed incorre quindi nel divieto di cui al citato art. 1283.
Le norme bancarie uniformi, predisposte da un’associazione di categoria pianificata alla tutela degli interessi esclusivi delle banche (A.B.I.), non hanno forza normativa (Cass. 26 ottobre 1968, n.3572; Cass. 14 dicembre 1971, n.3638).
Invece, chi invoca l’operatività dell’uso deve fornire la prova della sua esistenza e del suo contenuto (Cass. 6 dicembre 1972, n. 3533), non essendo il giudice tenuto a ricorrere a fonti estranee alla sua scienza ufficiale, né tanto meno ad indagini personali involgenti l’esercizio di attività istruttorie non richieste dalle parti (Cass. 17 maggio 1976, n. 1742).
Cass., sez. I, 1 ottobre 2002, n. 14091 ha statuito che: “La clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente di una banca è nulla in quanto essa non risponde ad un uso negoziale (e non normativo), ancorché la clausola stessa sia nello specifico contratto, dichiarata conforme alle “norme bancarie uniformi” (giacché anche queste costituiscono usi negoziali).”. Nel senso della nullità della convenzione di capitalizzazione trimestrale dell’interesse composto, per violazione degli artt. 1283 e 14182 c.c., si confrontino, tra le altre, Cass. 18 settembre 2003, n. 13739; Cass., Sez. I, 1 ottobre 2002, n. 14091; Cass., Sez. I, 28 marzo 2002 n. 4498; Cass., Sez. I, 28 marzo 2002 n. 4490; Cass., Sez. I, 1° febbraio 2002 n. 1281; Cass., Sez. I, 11 novembre 1999 n. 12507; Cass., Sez. III, 30 marzo 1999 n. 3096; Trib. Monza 21 febbraio 1999; Trib. Busto Arsizio, 15 giugno 1998; Trib. Vercelli 21 luglio 1994; Pret. Roma 11 novembre 1996, ecc..
L’enunciazione del principio di nullità delle clausole bancarie anatocistiche si pone come la conclusione obbligata di un ragionamento di tipo sillogistico.
Premessa maggiore = affermazione che gli “usi contrari”, suscettibili di derogare al precetto dell’articolo 1283 Cc, sono non i meri usi negoziali di cui all’articolo 1340 Cc ma esclusivamente i veri e propri “usi normativi”, di cui agli articoli 1 e 8 disp. prel. Cc, consistenti nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento (usus), accompagnato dalla convinzione che si tratta di comportamento (non dipendente da un mero arbitro soggettivo ma) giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell’ordinamento giuridico (opinio juris ac necessitatis).
Premessa minore = constatazione che «dalla comune esperienza emerge che i clienti si sono nel tempo adeguati all’inserimento della clausola anatocistica non in quanto ritenuta conforme a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile fossero esistenti nell’ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell’associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituiva al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari. Atteggiamento psicologico ben lontano da quella spontanea adesione a un precetto giuridico in cui, sostanzialmente, consiste l’opinio juris ac necessitatis, se non altro per l’evidente disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e interessi dovuti dal cliente».

Contestazione della portata retroattiva del nuovo indirizzo.
Si è sostenuto che la giurisprudenza del ‘99 abbia correttamente accertato l’inesistenza attuale, ma erroneamente escluso l’esistenza pregressa della consuetudine in parola
Ed a sostegno di tale assunto si è affermato:
– che l’opinio iuris della prassi di capitalizzazione degli interessi dovuti dal cliente sarebbe stata esclusa dalla criticata giurisprudenza assumendo a parametro un quadro normativo, come evolutosi a partire dai primi anni ‘90, non certo retrodatabile all’epoca in cui, in un contesto radicalmente diverso, quella prassi si era instaurata, con adesione degli utenti dei servizi bancari, che ne avrebbero pienamente presupposto la normatività;
– che, comunque, la stessa precedente giurisprudenza che per un ventennio aveva reiteratamente ritenuto, ove pur erroneamente, l’esistenza di un uso normativo di capitalizzazione degli interessi bancari avrebbe, per ciò stesso, costituito “elemento di fondazione o consolidazione dell’uso stesso”.
Nessuno dei riferiti, pur suggestivi, argomenti può essere condiviso secondo Cass., SS UU, 4 novembre 2004 n. 21095
L’evoluzione del quadro normativo − impressa dalla giurisprudenza e dalla legislazione degli anni ‘90, in direzione della valorizzazione della buona fede come clausola di protezione del contraente più debole, della tutela specifica del consumatore, della garanzia della trasparenza bancaria, della disciplina dell’usura − ha innegabilmente avuto il suo peso nel determinare la ribellione del cliente (che ha dato, a sua volta, occasione al revirement giurisprudenziale) relativamente a prassi negoziali, come quella di capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti alle banche, risolventesi in una non più tollerabile sperequazione di trattamento imposta dal contraente forte in danno della controparte più debole. Ma ciò non vuole dire (e il dirlo sconterebbe un evidente salto logico) che, in precedenza, prassi siffatte fossero percepite come conformi a ius e che, sulla base di una tale convinzione (opinio iuris), venissero accettate dai clienti
Più semplicemente, di fatto, le pattuizioni anatocistiche, come clausole non negoziate e non negoziabili, perché già predisposte dagli istituti di credito, in conformità a direttive delle associazioni di categoria, venivano sottoscritte dalla parte che aveva necessità di usufruire del credito bancario e non aveva. quindi, altra alternativa per accedere ad un sistema connotato dalla regola del prendere o lasciare. Dal che la riconducibilità, ab initio, della prassi di inserimento, nei contratti bancari, delle clausole in questione, ad un uso negoziale e non già normativo (per tal profilo in contrasto dunque con il precetto dell’articolo 1283 cc), come correttamente ritenuto dalle sentenze del 1999 e successive
Né è in contrario sostenibile che la “fondazione” di un uso normativo, relativo alla capitalizzazione degli interessi dovuti alla banca, sia in qualche modo riconducibile alla stessa giurisprudenza del ventennio antecedente al revirement del 1999. Anche in materia di usi normativi, così come con riguardo a norme di condotta poste da fonti-atto di rango primario, la funzione assolta dalla giurisprudenza, nel contesto di sillogismi decisori, non può essere altra che quella ricognitiva, dell’esistenza e dell’effettiva portata, e non dunque anche una funzione creativa, della regola stessa. La giurisprudenza a prescindere dalla sua idoneità (tutta da dimostrare e in realtà indimostrata) ad ingenerare nei clienti una “opinio iuris” del meccanismo di capitalizzazione degli interessi, inserito come clausola insuscettibile di negoziazione nei controlli stipulati con la banca non avrebbe potuto, comunque, conferire normatività ad una prassi negoziale (che si è dimostrato essere) contra legem.

Della insuperabile valenza retroattiva dell’accertamento di nullità delle clausole anatocistiche, contenuto nelle pronunzie del 1999, si è mostrato subito, del resto, ben consapevole anche il legislatore. Il quale nell’intento di evitare un prevedibile diffuso contenzioso nei confronti degli istituti di credito ha dettato, nel comma 3 dell’articolo 25 del già citato D.Lgs 342/99, una norma ad hoc, volta appunto ad assicurare validità ed efficacia alle clausole di capitalizzazione degli interessi inserite nei contratti bancari stipulati anteriormente alla entrata in vigore della nuova disciplina, paritetica, della materia, di cui ai precedenti commi primo e secondo del medesimo articolo 25.
L’art. 25 D.Lgs. 04/08/1999 n. 342, recante modifiche all’art. 120 D.Lgs. 01/09/1993 n. 385 (T.U.B), è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, relativamente al solo 3° comma, con sentenza n. 425 del 17 ottobre 2000, per eccesso di delega e conseguente violazione dell’articolo 77 Cost.
L’eliminazione ex tunc, per tal via, della eccezionale salvezza e conservazione degli effetti delle clausole già stipulate lascia queste ultime, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, sotto il vigore delle norme anteriormente in vigore, alla stregua delle quali, per quanto si è detto, esse non possono che essere dichiarate nulle, perché stipulate in violazione dell’articolo 1283 Cc (cfr. Cassazione 4490/02).

A sua volta il comma 2 del D.Lvo 342/1999 aggiungeva all’art. 120 TU Bancario la norma secondo cui
“Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori”.
Sono valide, pertanto, le clausole anatocistiche trimestrali stipulate successivamente all’entrata in vigore della richiamata delibera del CICR.
La questione di costituzionalità dell’intero art. 25 del D.Lvo n. 342/1999 è stata dichiarata inammissibile dalla Consulta con ordinanza del 3 maggio 2002 e, successivamente, infondata da C Cost 12 ottobre 2007 n. 341 e C. Cost. 4 luglio 2008 n 254 .
La disciplina introdotta dalla delibera del CICR costituisce, pertanto, una norma speciale rispetto alla previsione dell’art. 1283 c.c.
L’unica condizione, alla quale il predetto comma 2 subordina la validità delle clausole anatocistiche consiste nella identica periodicità nel conteggio degli interessi creditori e debitori nel rapporto di conto corrente tra banca e cliente.

La nullità della clausola anatocistica è rilevabile d’ufficio dal giudice (Cass., sez. I, 8 maggio 2008 n. 11466; Cass., sez. I, 13 ottobre 2005 n. 19882; Cass., sez. III, 15 maggio 2005 n 15023), rimanendo irrilevante, a tal fine, l’assenza di una deduzione (o di una tempestiva deduzione) dell’invalidità ad opera dell’interessato. Infatti, è pur vero che il potere conferito al giudice dall’art. 1421 c.c. va coordinato con il principio della domanda (artt. 99 e 112 c.p.c.), ma un tale contrasto si risolve sulla base posto che il potere-dovere decisionale del giudice, in relazione alla domanda proposta, si estende agli aspetti della inesistenza o della nullità del contratto dedotto dall’attore. Pertanto, la deduzione in tal senso del convenuto non può costituire, od essere considerata, “domanda giudiziale”, non ponendosi in rapporto genetico con il potere-dovere decisionale del giudice sul punto, che già esiste. Sia impostata quella deduzione come eccezione, come domanda riconvenzionale per la declaratoria di nullità, o come motivo di gravame, si tratta pur sempre di mera difesa, inidonea a condizionare, in senso positivo o negativo, l’esercizio del potere di rilievo officioso della nullità del contratto (art. 1421 c.c.). (Cass. 22.10.1984, n. 5341; Sez. un. n. 21095/04 cit.).

La disposizione che ammette l’anatocismo, dettata dall’art. 1283 c.c. in materia di obbligazioni pecuniarie, non enuncia un principio di carattere generale valido per ogni specie di obbligazione, ma ha carattere eccezionale, e non è quindi estensibile ai cosiddetti debiti di valore, quali quelli derivanti da responsabilità aquiliana. (Cass., sez. III, 15 luglio 2005 n. 15023).

Cass., SS.UU., 2 dicembre 2010, n. 24418
(Pres. De Luca – rel. Rordorf)

“Se, dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisce per far dichiarare la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione è soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati”.
“L’interpretazione data dal Giudice di merito all’art. 7 del contratto di conto corrente bancario, stipulato dalle parti in epoca anteriore al 22 aprile 2000, secondo la quale la previsione di capitalizzazione annuale degli interessi contemplata dal primo comma di detto articolo si riferisce solo ad interessi maturati a credito del correntista, essendo invece la capitalizzazione degli interessi a debito previsto dal comma successivo su base trimestrale, è conforme ai criteri legali di interpretazione del contratto, ed in particolare, a clausole: con la conseguenza che, dichiarata la nullità della surriferita previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall’art. 1283 c.c. (il quale osterebbe anche ad un’eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale), gli interessi a debito del correntista debbono essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna”.
(…)
Svolgimento del processo

Il sig. L. Giuseppe con atto notificato il 21 giugno 2001, citò in giudizio dinanzi al tribunale di Lecca, la Banca Popolare Pugliese Soc. coop. per A., in prosieguo indicata come Banca BPP. Riferì di aver versato a detta banca, dopo la chiusura di alcuni rapporti di conto corrente, con essa intrattenuti tra il 1995 e il 1998, un importo comprensivo di interessi computati ad un tasso extralegale e capitalizzati trimestralmente per l’intera durata dei menzionati rapporti.
Chiese quindi che, previa declaratoria di nullità della clausola contrattuale inerente agli interessi sopra indicati, la banca convenuta fosse condanna a restituire quanto indebitamente a questo titolo percepito.
La Banca Pop. Pugliese si difese contestando la fondatezza della pretesa dell’attore ed eccependo la prescrizione del diritto azionato.
L’adito tribunale, accolse in parte le domande del sig. L. e condannò la banca a restituirgli l’importo di euro 113.571,08.
Chiamata a pronunciarsi sui contrapposti gravami delle parti, la Corte d’appello di Lecce, con sentenza non definitiva, resa pubblica il 19.2.2009, accolse parzialmente la sola impugnazione principale, in quanto ritenne che validamente fosse stata pattuita la corresponsione di interessi ad un tasso extralegale. Confermò invece la declaratoria di nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale dei medesimi interessi, escludendo di potervi validamente sostituire un meccanismo di capitalizzazione annuale e ribadì il rigetto dell’eccezione di prescrizione con cui l’istituto di credito aveva inteso paralizzare l’azione di ripetizione di indebito proposta dal correntista.
Avverso tale sentenza la Banca ha avanzato ricorso per cassazione prospettando due motivi di censura.
Il sig. L. si è difeso con controricorso ed ha proposto un ricorso incidentale, articolato in due motivi ed illustrato poi anche con memoria, alla quale la Banca ha replicato, a propria volta con un controricorso del pari illustrato da successiva memoria.
La particolare importanza delle questioni sollevate ha indotto ad investirne le Sezioni Unite.
All’esito della discussione in pubblica udienza, il difensore della ricorrente ha presentato osservazioni scritte sulle conclusioni del Pubblico Ministero.

Motivi della decisione

1. I ricorsi proposti avverso la medesima sentenza debbono preliminarmente essere riuniti, come dispone l’art. 335 c.p.c..
2. I due motivi del ricorso principale, entrambi volti a denunciare errori di diritto e vizi di motivazione dell’impugnata sentenza, investono rispettivamente due distinte questioni:
a) se l’azione di ripetizione di indebito proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi maturati su un’apertura di credito in conto corrente e chiede perciò la restituzione di quanto, a questo titolo corrisposto alla banca, si prescriva a partire dalla data di chiusura del conto, o partitamente da quando è stato annotato in conto ciascuna addebito per interessi;
b) se, accertata la nullità dell’anzidetta clausola di capitalizzazione trimestrale, gli interessi debbano essere computati con capitalizzazione annuale o senza capitalizzazione alcuna.
3. Giova premettere che i rapporti di conto corrente dei quali nella presente causa si discute risultano essersi svolti ed essere stati chiusi in data precedente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 342 del 1999, con cui è stato modificato l’art. 120 del D.Lgs, n. 385 del 1993 (Testo Unico bancario).
Ad essi non è quindi applicabile la disciplina dettata, in attuazione della richiamata normativa, dalla delibera emessa il 9 febbraio 2000 dal comitato interministeriale per il credito ed il risparmio (CICR). Perciò, anche per effetto della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 25 terzo comma del citato D.Lgs. n. 342/99, pronunciata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 425 del 2000, la disciplina cui occorre qui fare riferimento è esclusivamente quella antecedente al 22 aprile 2000 (data di entrata in vigore della menzionata delibera del CICR).
Su tale base è stata dichiarata nelle pregresse fasi del giudizio di merito la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del cliente, che figurava nei contratti conto corrente bancario di cui tratta, in conformità all’orientamento di questa Sezione Unite, secondo cui la legittimità della capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del correntista bancario va esclusa anche con riguardo al periodo anteriore alle decisioni con le quali la Suprema Corte, ponendosi in contrasto con l’indirizzo giurisprudenziale sin lì seguito, ha accertato l’inesistenza di un uso normativo idoneo a derogare al precetto dell’art. 1283 c.c. (Sez. Un. 4 novembre 2004, n. 21095).
Deriva da ciò la pretesa del correntista di ripetere quanto indebitamente versato a titolo di interesse illegittimamente computati a suo carico dalla banca, ma occorre stabilire all’accoglimento di tale pretesa osti l’intervenuta prescrizione. Infatti, se l’azione di nullità è imprescrittibile, altrettanto non è a dirsi –come chiaramente indicato dall’art. 1422 c.c.– per le conseguenti azioni restitutorie; donde, appunto, la già richiamata necessità di individuare il dies a quo del termine di prescrizione decennale applicabile, in casi come questi, alla condictio indebiti.
3.1. A tale riguardo è opportuno anzitutto ricordare come la pregressa giurisprudenza di questa Corte, alla quale anche l’impugnata sentenza ha fatto riferimento, abbia già in passato avuto occasione di affermare che il termine di prescrizione decennale per il reclamo delle somme trattenute dalla banca indebitamente a titolo di interessi su un’apertura di credito in conto corrente decorre dalla chiusura definitiva del rapporto, trattandosi di un contratto unitario che dà luogo ad unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi, sicché è solo con la chiusura del conto si stabiliscono definitivamente i crediti e i debiti delle parti tra loro (Cass. 9 aprile 1984, n. 2262; e Cass. 14 maggio 2005, n. 10127).
A siffatto orientamento, che non tutta la dottrina ha condiviso, la banca ricorrente muove critiche che son degne di attenzione.
Può condividersi il rilievo secondo cui l’unitarietà del rapporto giuridico derivante dal contratto di conto corrente bancario non è, di per sé solo, elemento decisivo al fine di individuare nella chiusura del conto il momento da cui debba decorrere il termine di prescrizione del diritto alla ripetizione di indebito che, in caso di poste non legittimamente iscritte nel conto medesimo, eventualmente spetti al correntista nei confronti della banca.
Ogni qualvolta un rapporto di durata implichi prestazioni in denaro ripetute o scaglionate nel tempo –si pensi alla corresponsione dei canoni di locazione o d’affitto, oppure del prezzo nella somministrazione periodica di cose– l’unitarietà del rapporto contrattuale ed il fatto che esso sia destinato a protrarsi ancora per il futuro non impedisce di qualificare indebito ciascun singolo pagamento non dovuto, se ciò dipende dalla nullità del titolo giustificativo dell’esborso, sin dal momento in cui il pagamento medesimo abbia avuto luogo; ed è sempre da quel momento che sorge dunque il diritto del solvens alla ripetizione e che la relativa prescrizione inizi a decorrere.
Nondimeno, con specifico riguardo al contratto di apertura di credito bancario in conto corrente, la conclusione alla quale era pervenuta la giurisprudenza sopra richiamata va tenuta ferma in base alle considerazioni ed entro i limiti di cui appresso.
3.2. Occorre considerare che, con tutta ovvietà, perché possa sorgere il diritto alla ripetizione di un pagamento l’indebitamento eseguito, tale pagamento deve esistere ed essere ben individuabile.
Senza indulgere in inutili disquisizioni nella nozione di pagamento nel linguaggio giuridico e sulla sua assimilazione o distinzione dalla più generale nozione di adempimento, appare indubbio che il pagamento, per dar vita ad un’eventuale pretesa restitutoria di chi assume di averlo indebitamente effettuato, debba essersi tradotto nell’esecuzione di una prestazione da parte di quel medesimo soggetto (il solvens), con conseguente spostamento patrimoniale in favore di altro soggetto (l’accipiens); e lo si può dire indebito –e perciò ne consegue il diritto di ripeterlo a norma dell’art. 2033– quando difetti di una idonea causa giustificativa.
Non può, pertanto, ipotizzarsi, il decorso del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione se non da quando sia intervenuto un atto giuridico, definibile come pagamento, che l’attore pretende essere indebito, perché prima di quel non è configurabile alcun diritto di ripetizione. Ne tale conclusione muta nel caso in cui il pagamento debba dirsi indebito in conseguenza dell’accertata nullità del negozio giuridico in esecuzione al quale è stato effettuato, altra essendo la domanda volta a far dichiarare la nullità di un atto che non si prescrive affatto, altra quella volta ad ottenere la condanna alla restituzione di una prestazione eseguita: sicché questa Corte ha già in passato chiarito che con riferimento a questa ultima domanda il termine di prescrizione inizia a decorrere non dalla data della decisione che abbia accertato la nullità del titolo giustificativo del pagamento ma da quella del pagamento stesso (Cass. 13 aprile 2005, n. 7651).
3.3. I rilievi che precedono sono sufficienti a convincere di come difficilmente possa essere condiviso il punto di vista della ricorrente, che, in casi del genere di quello in esame, vorrebbe individuare il dies a quo del decorso della prescrizione nella data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati dalla banca al correntista.
L’annotazione in conto di una siffatta posta comporta un incremento del debito del correntista, o una riduzione del credito di cui egli ancora dispone, ma in nessun modo si risolve in un pagamento, nei termini sopra indicati: perché non vi corrisponde alcuna attività solutoria del correntista medesimo in favore della banca. Sin dal momento dell’annotazione, avvedutosi dell’illegittimità dell’addebito in conto, il correntista potrà naturalmente agire per far dichiarare la nullità del titolo su cui quel addebito si basa e, di conseguenza, per ottenere una rettifica in suo favore delle risultanze del conto stesso. E potrà farlo, se la conto accede un’apertura di credito bancario, allo scopo di recuperare una maggiore disponibilità di credito entro i limiti del fido concessogli. Ma non può agire per la ripetizione di un pagamento che, in quanto tale, da parte sua non ha ancora avuto luogo.
Occorre allora aver riguardo, più ancora che al già ricordato carattere unitario del rapporto di conto corrente, alla natura ed al funzionamento del contratto di apertura di credito bancario, che in conto corrente è regolata. Come agevolmente si evince dal disposto degli artt. 1842 e 1843 c.c., l’apertura di credito si attua la messa a disposizione, da parte della banca, di una somma di denaro che il cliente può utilizzare anche in più ripresa e della quale, per l’intera durata del rapporto, può ripristinare in tutto o in parte la disponibilità eseguendo versamenti che gli consentiranno poi eventuali ulteriori prelevamenti entro il limite complessivo del credito accordatogli.
Se, pendente l’apertura di credito, il correntista non si sia avvalso della facoltà di effettuare versamenti, pare indiscutibile che non vi sia alcun pagamento da parte sua, prima del momento in cui chiuso il rapporto egli provveda a restituire alla banca il denaro in concreto utilizzato. In tal caso, qualora la restituzione abbia ecceduto il dovuto a causa del computo di interessi in misura non consentita, l’eventuale azione di ripetizione di indebito non potrà che essere esercitata in un momento successivo alla chiusura del conto, e solo da quel momento comincerà perciò a decorrere il relativo termine di prescrizione.
Qualora, invece, durante lo svolgimento del rapporto il correntista abbia effettuato non solo prelevamenti ma anche versamenti, in tanto questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione (ove risultino indebiti), in quanto abbiano avuto lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca. Questo accadrà qualora si tratti di versamenti eseguiti su un conto in passivo (o, come in simili situazioni si preferisce di dire “scoperto”) cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando i versamenti siano destinati a coprire in passivo eccedente i limiti dell’accreditamento. Non è così, viceversa, in tutti i casi nei quali i versamenti in conto, non avendo il passivo superato il limite dell’affidamento concesso al cliente, fungano unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere.
L’accennata distinzione tra atti ripristinatori della provvista ed atti di pagamento compiuti dal correntista per estinguere il proprio debito verso la banca opportunamente richiamata anche nell’impugnata sentenza della Corte D’appello è ben nota alla giurisprudenza (che ne ha fatto applicare in innumerevoli casi, a partire da Cass. 18 ottobre 1982, n. 5413 sino a tempi più recenti si vedano ad es. Cass. 6 novembre 2007, n. 23107; Cass. 23 novembre 2005 n. 24588).
Pur se elaborata ad altri fini detta distinzione non può non venire in evidenzia anche quando si tratti di stabilire se è o meno configurabile un pagamento asseritamene indebito da cui possa scaturire una pretesa restitutoria ad opera del solvens: pretesa che è soggetta a prescrizione solo a partire dal momento in cui si può affermare che essa sia venuta ad esistenza.
Un versamento eseguito dal cliente su un contro il cui passivo non abbia superato il limite dell’affidamento concesso dalla banca con l’apertura di credito non ha né lo scopo né l’effetto di soddisfare la pretesa della banca medesima di vedersi restituire le somme date a mutuo (credito che, in quel momento, non sarebbe scaduto né esigibile), bensì quello di riespandere la misura nell’affidamento utilizzabile nuovamente in futura dal correntista. Non è, dunque, un pagamento, perché non soddisfa il creditore ma amplia (o ripristina) la facoltà di indebitamento del correntista; la circostanza che, in quel momento il saldo passivo del conto sia influenzato dai interessi legittimamente fin li computati si traduce in un’indebita limitazione di tale facoltà di maggiore indebitamento, ma nel pagamento anticipato di interessi. Di pagamento, nella descritta situazione, potrà dunque parlarsi soltanto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia estratto dal correntista la restituzione del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi interessi non dovuti, e, perciò, da restituire se corrisposti dal cliente all’atto della chiusura del conto.
3.4. Nel caso in esame la corte territoriale ha appunto affermato che i pagamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto di apertura di credito regolato in conto corrente “non costituiscono (sostiene l’appellante) pagamenti (indebiti), ma atti ripristinatori della provvista” (Sent. impugnata pag. 7).
La ricorrente non ha censurato tale affermazione, ne ha comunque sostenuto che vi fossero in atti elementi dai quali si sarebbe desumere una realtà diversa. Ne consegue che il primo motivo del ricorso principale và rigettato alla luce del seguente principio di diritto: “Se, dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisce per far dichiarare la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione è soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati”.
4. La questione se, accertata la nullità dell’anzidetta clausola di capitalizzazione trimestrale, gli interessi debbano essere computati con capitalizzazione annuale o senza capitalizzazione alcuna forma oggetto, come già detto, del secondo motivo di ricorso.
La corte d’appello ha interpretato le clausole riportate nel contratto di conto corrente stipulato dal signor L. con la banca pugliese nel senso che, in caso di conto in attivo per il cliente, la capitalizzazione degli interessi a suo favore fosse prevista a scadenze annuali, mentre, in caso di conto in passivo, la capitalizzazione degli interessi in favore della banca avrebbe dovuto avvenite trimestralmente. Accertata la nullità di quest’ultima previsione contrattuale ed esclusa ogni possibile integrazione legale del contratto, la corte di appello ha tratto la conclusione che non residui alcuno spazio per la capitalizzazione annuale degli interessi pretesa dalla banca.
Secondo la ricorrente siffatta interpretazione non sarebbe conforme ai criteri legali di interpretazione dei contratti ed implicherebbe un’indebita estensione della declaratoria di nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale anche alla diversa ipotesi di capitalizzazione annuale degli interessi, rispetto alla quale non sussisterebbero le medesime ragioni di invalidità.
4.1. Neppure siffatte censure colgono nel segno.
L’art. 7 del contratto di apertura di credito in conto corrente da cui origina la presente causa continue due commi: il primo prevede la chiusura contabile annuale dei rapporti, di dare e avere tra le parti, con registrazione in conto degli interessi, delle commissioni e delle spese; il secondo stabilisce che i conti anche saltuariamente debitori siano invece chiusi trimestralmente quindi con capitalizzazione trimestrale degli interessi maturati nel periodo a carico del correntista, ferma restando la capitalizzazione annuale di quelli eventualmente spettanti a suo credito.
L’interpretazione che di tale clausola di contratto ha dato la Corte di merito è essenzialmente fondata su un argomento di tipo logico-sistematico, in linea con la previsione del art. 1363 c.c., oltre che su rilievo dato al comportamento successivo delle parti (art. 1362, comma 2, c.c.).
Non è apparso infatti sostenibile alla Corte Leccese il primo comma della clausola in esame, nel prevedere la capitalizzazione annuale degli interessi, si riferisse anche a quelli eventualmente maturati a debito del correntista e che, perciò, venuta meno la previsione del secondo comma che assoggettava invece tali interessi debitori alla capitalizzazione trimestrale, dovesse trovare applicazione per essi la capitalizzazione annuale. Si osserva che nell’impugnata sentenza che alla capitalizzazione degli interessi debitori per il correntista si riferisce espressamente il secondo comma, prevedendola su base trimestrale, e che tale previsione, immaginata ovviamente come valida al tempo della sua predisposizione conduce evidentemente ad escludere che agli stessi interessi debitori le parti abbiano inteso applicare anche in regime – diverso ed incompatibile – della capitalizzazione annuale contemplato dal primo comma. Il che ha condotto alla ragionevole conclusione secondo cui il riferimento del medesimo primo comma agli interessi debba essere inteso come limitato agli interessi a credito del correntista, essendo la capitalizzazione di quelli a debito destinata necessariamente a cadere sotto la differente disciplina dettata dal secondo comma.
La banca ricorrente, nel contestare che questa interpretazione corrisponda davvero alla comune intenzione delle parti del contratto, non individua in modo puntuale quali regole di ermeneutica legale sarebbero state eventualmente violate, né pone in luce contraddizioni logiche nello sviluppo argomentativi che sorregge la conclusione raggiunta dalla Corte di merito.
Non appare d’altronde condivisibile l’affermazione secondo cui sarebbe stata in tal modo arbitrariamente estesa la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anche alla clausola di capitalizzazione annuale. Vero è invece che, come già chiarito, quest’ultima clausola è stata considerata irrilevante ai fini della decisione della causa, in quanto non riferibile al calcolo degli interessi a debito del correntista. La capitalizzazione annuale è stata dunque esclusa per difetto di qualsiasi base negoziale che l’abbia prevista e non perché sia stata dichiarata nulla la clausola che la prevedeva.
Del resto, non è il caso di tacere che neppure potrebbe essere condivisa la tesi secondo la quale le ragioni di nullità individuate dalla giurisprudenza di questa Corte per le clausole di capitalizzazione degli interessi debitori registrati in conto corrente investirebbero solo il profilo della loro periodizzazione trimestrale. Detta giurisprudenza, come è noto, ha escluso di poter ravvisare un uso normativo atto a giustificare, nel settore bancario, una deroga ai limiti posti all’anatocismo dall’art. 1283 c.c.: ma non perché abbai messo in dubbio il reiterarsi nel tempo della consuetudine consistente nel prevedere nei contratti di conto corrente bancari la capitalizzazione trimestrale degli indicati interessi, bensì per difetto del requisito della “normatività” di tale pratica. Sarebbe, di conseguenza, assolutamente arbitrario trarne la conseguenza che, nel negare l’esistenza di usi normativi di capitalizzazione trimestrale degli interessi, quella medesima giurisprudenza avrebbe riconosciuto (implicitamente o esplicitamente) la presenza di usi normativi di capitalizzazione annuale. Prima che difettare di normatività, usi siffatti non si rinvengono nella realtà storica, o almeno non nella realtà storica dell’ultimo cinquantennio anteriore agli interventi normativi della fine degli anni novanta del secolo passato: periodo caratterizzato da una diffusa consuetudine (non accompagnata però dalla opinio juris ac necessitatis) di capitalizzazione trimestrale, ma che non risulta affatto aver conosciuto anche una consuetudine di capitalizzazione annuale degli interessi debitori, né di necessario bilanciamento con quelli creditori.
4.2. Il rigetto del secondo motivo del ricorso principale può essere dunque accompagnato dall’enunciazione del seguente principio di diritto: “L’interpretazione data dal Giudice di merito all’art. 7 del contratto di conto corrente bancario, stipulato dalle parti in epoca anteriore al 22 aprile 2000, secondo la quale la previsione di capitalizzazione annuale degli interessi contemplata dal primo comma di detto articolo si riferisce solo ad interessi maturati a credito del correntista, essendo invece la capitalizzazione degli interessi a debito previsto dal comma successivo su base trimestrale, è conforme ai criteri legali di interpretazione del contratto, ed in particolare, a clausole: con la conseguenza che, dichiarata la nullità della surriferita previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall’art. 1283 c.c. (il quale osterebbe anche ad un’eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale), gli interessi a debito del correntista debbono essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna”.
5. Quanto alla misura del tasso di interesse applicato dalla banca al rapporto in esame, che è la questione su cui vertono i due motivi del ricorso incidentale, è necessario ricordare come la Corte Territoriale abbia reputato soddisfatto il requisito della pattuizione per iscritto del tasso extralegale, posto dall’ultimo comma dell’art. 1284 c.c., perché la difesa dell’istituto di credito ha prodotto in giudizio le proposte contrattuali, firmate dal Sig. L., contenenti appunto l’indicazione di un tasso di interesse superiore a quello previsto dalla legge.
Il ricorrente non contesta il consolidato principio giurisprudenziale al quale la Corte d’Appello si è richiamata, e cioè che la produzione in giudizio di una scrittura privata ad opera di una parte che non l’abbia sottoscritta costituisce equipollente della mancata sottoscrizione contestuale e pertanto perfeziona il contratto in essa contenuto, purché la controparte del giudizio sia la stessa che aveva già sottoscritto il contratto e non abbia revocato, prima della produzione, il consenso prestato (cfr. Cass. 12 giugno 2006, n. 13548; Cass. 16 maggio 2006, n. 11409; Cass. 8 marzo 2006, n. 4921, e numerose altre conformi) egli afferma, però, che la banca avrebbe in realtà applicato interessi diversi da quelli indicati nelle surriferite scritture, adeguandosi agli usi correnti su piazza (primo motivo del ricorso incidentale); ed aggiunge che la Corte di Appello avrebbe trascurato di tenere conto della produzione ad opera della difesa del medesimo Sig. L., di una lettera, inviata alla controparte prima dell’inizio della causa, nella quale era stata espressa l’intenzione di revocare la volontà manifestata in qualsiasi precedente scrittura (secondo motivo).
5.1. Nemmeno il ricorso incidentale appare meritevole di accoglimento.
La circostanza che la banca possa aver di fatto applicato interessi ad un tasso diverso da quello pattuito –pattuizione la cui validità discende dal principio di diritto enunciato dalla giurisprudenza sopra richiamata, al quale il Giudice di merito appare essersi correttamente attenuto– non è circostanza idonea ad invalidare ex post la pattuizione stessa; ma implica che sia stata stipulata tra le parti un’altra, priva del necessario requisito formale o ancorata a parametri oscillanti e non adeguatamente predeterminabili. Detta circostanza potrebbe semmai aver rilievo, ai fini della decisione della causa, solo qualora i tassi di interesse in concreto applicati dalla banca fossero stati superiori a quelli indicati nei documenti contrattuali sottoscritti dal correntista e prodotti in giudizio dalla banca medesima; ma ciò non risulta, o comunque il ricorrente incidentale non documenta di averlo provato nel corso del giudizio di merito.
Il che basta a privare la sua doglianza di fondamento.
L’assunto secondo il quale il Sig. L. avrebbe revocato la dichiarazione contrattuale da lui sottoscritta prima che questa fosse prodotta in causa dalla banca, non può messere apprezzato in questa sede.
Il ricorrente incidentale si limita, infatti, a riportare tra virgolette un passaggio della lettera contenente tale asserita revoca; ma solo la lettura integrale del documento consentirebbe davvero di valutarne la portata negoziale, né lo stesso ricorrente ha indicato con sufficiente precisione in quale atto del giudizio di merito quel documento, sul quale il motivo di ricorso si fonda, è stato prodotto (limitandosi a dire che risulta “prodotto in atti”); e neppure appare averlo autonomamente depositato nella cancelleria di questa Corte: onde non può dirsi siano state a questo riguardo rispettate le prescrizioni dettate, rispettivamente a pena di inammissibilità ed improcedibilità, degli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n. 4, c.p.c.
6. Il rigetto di entrambi i ricorsi e la conseguente reciproca soccombenza induce a compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, li rigetta e compensa tra le parti le spese del giudizio di Legittimità.
Così deciso, in Roma il 23 novembre 2010

CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 5 APRILE 2012, N. 78

In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente non opera l’interpretazione dell’art. 2935 c.c. introdotta dal comma 61 dell’art. 2 d.l. 29 dicembre 2010 n. 225 conv. dalla l. 26 febbraio 2011 n. 10 relativamente alla decorrenza dal giorno dell’annotazione, né vale il non luogo alla restituzione d’importi già versati alla data del 27 febbraio 2011 essendo costituzionalmente illegittimo l’intero comma 61 suindicato.
L’art. 2, comma 61, d.l. 29 dicembre 2010 n. 225 (comma aggiunto dalla legge di conversione 26 febbraio 2011 n. 10), che stabilisce che “In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l’art. 2935 c.c. si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall’annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell’annotazione stessa”, è costituzionalmente illegittimo per essere in contrasto con il canone generale della ragionevolezza delle norme (la disposizione, autoqualificantesi di interpretazione autentica e, pertanto, con efficacia retroattiva, infatti, lungi dall’esprimere una soluzione ermeneutica rientrante tra i significati ascrivibili all’art. 2935 c.c., ad esso nettamente deroga, innovando rispetto al testo previgente, peraltro senza alcuna ragionevole giustificazione e anzi l’efficacia retroattiva della deroga rende asimmetrico il rapporto contrattuale di conto corrente perché, retrodatando il decorso del termine di prescrizione, finisce per ridurre irragionevolmente l’arco temporale disponibile per l’esercizio dei diritti nascenti dal rapporto stesso, in particolare pregiudicando la posizione giuridica dei correntisti che, nel contesto giuridico anteriore all’entrata in vigore della norma denunziata, abbiano avviato azioni dirette a ripetere somme ai medesimi illegittimamente addebitate) e con l’art. 117, comma 1, cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (la Corte europea dei diritti dell’uomo, infatti, ha più volte affermato che se, in linea di principio, nulla vieta al potere legislativo di regolamentare in materia civile, con nuove disposizioni dalla portata retroattiva, diritti risultanti da leggi in vigore, il principio della preminenza del diritto e il concetto di processo equo sanciti dall’art. 6 Cedu ostano, salvo che per imperative ragioni di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia).

Note:
Come ricordato dal giudice delle leggi, la disposizione di interpretazione autentica dichiarata costituzionalmente illegittima dalla pronuncia in esame non soltanto ha un contenuto innovativo rispetto alla norma interpretata, ma anche si pone in contrasto con la risalente e costante interpretazione fornita dalla giurisprudenza della Corte suprema di cassazione sul punto. In tal senso, richiamate in motivazione sono:
— Cass. 9 aprile 1984 n. 2262, che, tra l’altro, ha affermato che il momento iniziale del termine di prescrizione decennale per il reclamo delle somme indebitamente trattenute dalla banca a titolo di interessi su un’apertura di credito in conto corrente (nella specie, perché calcolati in misura superiore a quella legale senza pattuizione scritta), decorre dalla chiusura definitiva del rapporto trattandosi di un contratto unitario che dà luogo ad un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi, sicché è solo con la chiusura del conto che si stabiliscono definitivamente i crediti e i debiti delle parti tra loro;
— Cass. 14 maggio 2005, n. 10127, che ha deciso che ai rapporti bancari regolati in conto corrente non sono applicabili gli art. 1823, comma 2, 1825 e 1831 c.c., in quanto non richiamati dall’art. 1857 c.c.;
— Cass., sez. un., 2 dicembre 2010 n. 24418 che, tra l’altro, ha deciso che, qualora, dopo la cessazione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisca per far dichiarare la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale, cui tale azione di ripetizione è soggetta, decorre, ove i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto in cui sono stati registrati gli interessi non dovuti.