ESAME AVVOCATO 2012 SOLUZIONE TRACCIA N 1 DIRITTO PENALE

La prima questione che il candidato poteva utilmente affrontare per la soluzione del caso proposto consiste nella qualificazione della condotta del notaio Tizio – sicuramente riconducibile al genus della appropriazione – in termini di peculato (art. 314 c.p.) o di appropriazione indebita (art. 646 c.p.).
A questo scopo, poteva procedersi ad un raffronto strutturale tra le due fattispecie, evidenziando come gli elementi specializzanti del peculato dovessero sicuramente individuarsi nella qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio del soggetto attivo e nel peculiare nesso funzionale che deve intercorrere tra res oggetto di possesso e competenza, anche di fatto, dell’agente.
Occorreva in particolare definire la natura della funzione di raccolta dell’imposta di registro attribuita dalla legge al notaio, chiarendo la nozione di pubblica funzione amministrativa delineata dall’art. 357 c.p. In tale prospettiva, secondo la giurisprudenza di legittimità la connotazione in termini pubblicistici dell’attività del notaio non è legata solo all’esercizio, tipico della sua attività, di un potere certificativo, bensì, in generale, alla regolamentazione del suo ufficio da parte di norme di diritto pubblico (individuate nella legge notarile, cfr ad es. Cass. Pen., 41178/2009) e alla formazione di atti pubblici (negozi giuridici notarili). Non vale peraltro ad escludere la qualità di p.u. del notaio la circostanza che la legge gli attribuisca, rispetto all’esazione dell’imposta di registro, la qualità di coobbligato solidale e responsabile d’imposta, perché si tratta di mero espediente tecnico volto a garantire la pronta e più agevole realizzazione dell’interesse fiscale (cfr. Cass. n. 47178/2009), che non muta i chiari connotati di altruità della res oggetto di disposizione.
Qualificato il fatto a norma dell’art. 314 c.p., bisognava affrontare l’ulteriore tema dell’individuazione delle condizioni di applicabilità, nel caso di specie, della confisca per equivalente prevista dall’art. 322-ter, comma 1, c.p., specificando che il provvedimento ablativo era stato anticipato negli effetti dallo strumento cautelare di cui all’art. 321 c.p.p., che, nel comma 2-bis, rende addirittura obbligatorio il sequestro preventivo del cose confiscabili a norma dell’art. 322-ter c.p.
In quest’ottica, un possibile svolgimento del tema poteva prendere le mosse dall’attuale formulazione dell’art. 322-ter, così come modificata dalla l. n. 190/2012, chiarendo innanzitutto l’ispirazione dell’istituto (di matrice comunitaria e sovranazionale) e le sue modalità operative (estensione dell’ablazione al tantundem del prezzo, prodotto o profitto del reato).
A questo punto, le peculiari note strutturali della confisca per equivalente dovevano condurre il candidato ad evidenziare la natura eminentemente sanzionatoria, così come definita dalla Corte costituzionale in più occasioni (di recente, soprattutto in relazione alla confisca per equivalente prevista per i reati tributari, che richiama espressamente l’art. 322-ter c.p., cfr. ord. n. 97/2009), con conseguente applicazione del principio di irretroattività dell’art. 25 comma 2 Cost., in luogo del principio “tempus regit actum” enunciato per le misure di sicurezza (cui apparentemente la confisca per equivalente sembrerebbe appartenere) dagli art. 25 comma 3 Cost e 200 c.p.
Enunciati i tratti essenziali dell’istituto, i beni oggetto di sequestri dovevano qualificarsi come tantundem del “profitto” derivante dal reato di peculato (sulle nozioni di prezzo, prodotto e profitto di reato v. Cass. S.u. 20/10/2005 n. 41996).
A questo punto, specificando che il fatto era stato presumibilmente commesso prima dell’entrata in vigore della legge n. 190/2012 (pluralità dei fatti e già avvenuta scadenza del termine per il versamento dell’imposta), poteva dichiararsi inapplicabile, proprio in virtù dell’enunciato principio di irretroattività, la modifica normativa introdotta dalla legge di riforma del capo dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, residuando l’eventuale possibilità di considerare l’intervenuta novella legislativa quale atto meramente ricognitivo di un’interpretazione dell’art. 322-ter, comma 1, c.p. che già consentisse l’ablazione “per equivalente” del profitto dei reati previsti dagli articoli 314 a 320.
In tale ambito, erano per vero enucleabili tre distinti orientamenti, con una netta preferenza per la tesi, fatta successivamente propria da Cass. Sez. Un., n. 38691/09, della limitazione della confisca per equivalente di cui al primo comma dell’art. 322-ter c.p. al solo prezzo del reato, sul presupposto che il chiaro tenore letterale della norma e il principio di tassatività non potevano certo ritenersi superati da un’interpretazione storica, legata agli strumenti normativi sovranazionali che avevano imposto l’introduzione della norma (ove ci si riferisce all’onnicomprensivo concetto di proceeds), né da una riduzione ad absurdum dell’opposta interpretazione, mossa dalla considerazione che le fattispecie indicate dal primo comma dell’art. 322-ter c.p. sono chiaramente correlate alla produzione di un profitto, per cui risulterebbe affatto incomprensibile che il legislatore abbia inteso ammettere la confisca per equivalente per un oggetto, il prezzo del reato, meramente eventuale, e negarla invece per uno, il profitto, intrinsecamente connaturato alla struttura delle fattispecie incriminatrici considerate.
Esclusa l’indiscriminata estensione della confisca per equivalente al profitto del reato di peculato, poteva inoltre negarsi l’applicazione di quell’orientamento intermedio, manifestatosi in una pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite (Cass. 25/10/2007, n. 10280), secondo cui “il bene costituente profitto del reato è confiscabile ai sensi dell’art. 322-ter, comma 1, c.p., prima parte, ogni qualvolta detto bene sia ricollegabile causalmente in modo preciso all’attività criminosa posta in essere dall’agente”, con ciò qualificando in termini di confisca diretta (e non per equivalente) l’apprensione del bene che costituisca, in maniera certa ed inequivocabile, il reimpiego del profitto, prezzo o prodotto del reato.
Nel caso di specie, tuttavia, non vi è alcuna prova della richiesta correlazione causale tra profitto ricavato dal mancato versamento dell’imposta di registro e acquisto dei beni immobili sequestrati, sicché il sequestro preventivo a scopo di confisca può sicuramente essere revocato mediante proposizione di riesame a norma dell’art. 322 c.p.p., o, in caso di decadenza da mezzo integralmente devolutivo per decorso del termine, con istanza di revoca alla competente autorità giudiziaria, da individuarsi presumibilmente nel giudice per le indagini preliminari, vista la contestualità tra avvio delle indagini preliminari e apposizione del vincolo cautelare reale.