ESAME AVVOCATO 2014 – Tracce e soluzioni parere civile
TRACCIA N. 2
Tizio, proprietario di un terreno, concede a Caio, proprietario del fondo confinante, di parcheggiare la propria autovettura su una porzione del suo terreno.
Per formalizzare tale accordo gli stessi stipulano una scrittura privata in cui si legge che Tizio dichiara di costituire su una determinata porzione del suo fondo una servitù di parcheggio a beneficio del fondo di Caio, dietro pagamento di un corrispettivo in denaro.
Caio inizia dunque a parcheggiare la propria autovettura sul terreno di Tizio. Dopo circa 2 anni Tizio vende il proprio terreno, nel frattempo divenuto edificabile, alla società Alfa, facendo espressa menzione nel contratto della servitù a suo tempo costituita a favore di Caio. Divenuta proprietaria, Alfa decide di costruire sul terreno un albergo di ampia cubatura che dovrebbe comprendere anche l’area destinata al parcheggio di Caio.
Alfa tuttavia trova l’opposizione di Caio, che intende continuare ad usufruire del terreno per parcheggiarvi la propria autovettura in considerazione della servitù a suo tempo costituita a vantaggio del suo fondo e che egli ritiene opponibile ad Alfa non solo perchè non costituisce un diritto reale, ma anche perchè espressamente menzionata nel contratto stipulato tra Tizio e Alfa.
Assunte le vesti del legale della società Alfa, il candidato illustri le questioni sottese al caso in esame, evidenziando in particolare i profili relativi ai requisiti per la valida costituzione di una servitù prediale.
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Le problematiche inerenti al caso in esame sono costituite dalla configurabilità di una «servitù di parcheggio» e dall’efficacia nei confronti del terzo del relativo contratto che il predetto diritto abbia costituito. In particolare, è necessario valutare se ad Alfa, sub-acquirente della proprietà del fondo servente, sia opponibile la predetta pattuizione (anche in virtù della menzione di tale asserita servitù nel contratto di vendita del fondo da Tizio ad Alfa) e, quindi, se la medesima società Alfa possa legittimamente pretendere che, in vista della costruzione di un albergo sull’area controversa, Caio sia privato del possesso della porzione di fondo.
La servitù prediale è un diritto reale di godimento su bene altrui e consiste nel «peso imposto su un fondo», cd. fondo servente, «per l’utilità di un altro fondo», cd. fondo dominante (art. 1027 c.c.).
Come tutti i diritti reali minori disciplinati dalla legge, la servitù è un diritto soggettivo assoluto, in quanto opponibile erga omnes, e inerente al bene, dal momento che non si estingue né con il trasferimento della proprietà a un diverso acquirente né con la costituzione di un diritto reale di garanzia, ma lo segue nelle successive vicende circolatorie del diritto, continuando a gravare sulla nuda proprietà.
Dalla disciplina che il Codice Civile dedica all’istituto (artt. 1027-1099 c.c.) dottrina e giurisprudenza hanno desunto le caratteristiche fondamentali, che possono sintetizzarsi come segue:
1) i fondi devono avere diversi proprietari (nemini res sua servit), come precisa l’art. 1027 c.c.;
2) la servitù deve attribuire una utilità, presente o futura (art. 1029 c.c.), esclusivamente al fondo dominante e non al suo proprietario (cd. predialità o realità). Tale utilità può consistere in una maggiore amenità o comodità del fondo dominante (1028 c.c.) o riguardare la sua destinazione industriale.
Più specificamente, l’utilità rappresenta quel vantaggio economicamente e socialmente apprezzabile apportato dal fondo servente al fondo dominante, che sia riscontrabile da qualsivoglia proprietario e non solo da uno specifico soggetto, come è dimostrato dal testuale riferimento dell’art. 1027 c.c. all’utilità «di un altro fondo»;
3) i fondi devono essere prossimi l’uno all’altro (praedia vicina esse debent). La vicinanza, pur non essendo un requisito specificamente richiesto dalla legge, è ritenuto implicito nel concetto di predialità e deve essere inteso, secondo la giurisprudenza, non come adiacenza materiale, bensì come vicinanza funzionale tale da assicurare l’utilità del fondo dominante.
4) oggetto del peso imposto sul fondo servente è un obbligo di non facere o pati del suo proprietario, secondo il principio servitus in faciendo consistere nequit. Prestazioni di facere possono essere convenute dalle parti solo a titolo di prestazioni accessorie (art. 1030 c.c.) nell’ambito di una pattuizione autonoma.
L’imposizione di una prestazione, infatti, fuoriesce dalla schema della servitù e forma l’oggetto di un’obbligazione che, ove correlata alla titolarità del diritto reale, assume le caratteristiche di una obbligazione propter rem.
La servitù prediale può avere fonte legale (disposizione di legge, provvedimento amministrativo o giurisdizionale) o volontaria (contratto o testamento). Il contratto costitutivo di servitù ha effetti reali (art. 1376 c.c.) e, se relativo a beni immobili o mobili registrati, richiede, ai fini della sua validità, la forma scritta dell’atto pubblico o della scrittura privata (art. 1350, comma 1°, n. 4, c.c.) e, ai fini della opponibilità dei suoi effetti, la trascrizione del titolo nei registri immobiliari (art. 2643, comma 1°, n. 4, c.c.).
La natura legale o volontaria della servitù incide sul suo contenuto, in quanto solo le servitù volontarie possono avere, in virtù del potere di autonomia contrattuale (art. 1322 c.c.), un contenuto atipico, ossia non rispondente alle figure di servitù disciplinate dalla legge e liberamente determinato dalle parti, purché siano sempre rispettati i principi generali che regolano l’istituto, quali sopra illustrati (Cass. 25 gennaio 1992, n. 820).
L’ammissibilità nel nostro ordinamento di una servitù di parcheggio, ipotizzabile – per la summenzionata tipicità delle servitù coattive – solo nell’ambito delle servitù volontarie, è esclusa dall’insussistenza del requisito della predialità, intesa come inerenza al fondo dominante dell’utilità, così come al fondo servente del peso.
Come affermato in giurisprudenza, la mera commoditas di parcheggiare l’auto per specifiche persone che accedano al fondo non può in alcun modo integrare gli estremi dell’utilità inerente al fondo stesso, risolvendosi, viceversa, in un vantaggio soltanto personale dei proprietari (Cass. 6 novembre 2014, n. 23708; Cass. 21 gennaio 2009, n. 1551). La Suprema Corte, più volte chiamata a pronunciarsi sull’usucapibilità di una servitù di parcheggio, ha, infatti, stabilito che «il parcheggio di autovetture costituisce manifestazione di un possesso a titolo di proprietà del suolo, non anche estrinsecazione di un potere di fatto riconducibile al contenuto di un diritto di servitù, del quale difetta la “realitas”, intesa come inerenza al fondo dominante dell’utilità, così come al fondo servente del peso» (ex multis Cass. 7 marzo 2013, n. 5769). Inoltre, il difetto del requisito della predialità ha indotto la Corte di Cassazione a ritenere nullo il contratto costitutivo del diritto reale minore per impossibilità giuridica dell’oggetto (Cass. 6 novembre 2014, n. 23708).
Esclusa la riconducibilità della cd. «servitù di parcheggio» all’istituto delle servitù prediali, si deve osservare che il concreto risultato voluto dalle parti può essere conseguito unicamente con la conclusione un contratto ad efficacia obbligatoria, che attribuisca ad uno dei contraenti un diritto personale di godimento (art. 1379 c.c.).
Uniforme, anche sotto questo profilo, è la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale «nel nostro sistema, giuridico non sono ammissibili servitù personali (ovvero irregolari), intese come limitazioni al diritto di proprietà su una cosa a beneficio di una persona. Pertanto, la convenzione attraverso la quale si raggiunge il detto risultato, o è costitutiva di un diritto d’uso oppure rientra nello schema della locazione o dei contratti affini, quali l’affitto o il comodato. In entrambi i casi il diritto trasferito è di natura personale, il suo contenuto ha carattere obbligatorio, e pertanto non è trasferibile» (fra le altre Cass. 11 gennaio 1999, n. 190). Conseguentemente, in caso di successivo trasferimento della proprietà dell’area di parcheggio, tale diritto personale di godimento può essere conservato soltanto con il consenso dell’acquirente alla cessione del contratto (art. 1406 c.c.).
Alla luce delle osservazioni svolte, le pretese della società Alfa devono ritenersi pienamente fondate per le ragioni che seguono.
In primo luogo, il contratto con cui Tizio ha concesso a Caio, a titolo oneroso, la “servitù” di parcheggio sul proprio fondo è nullo per impossibilità giuridica dell’oggetto (artt. 1346 e 1418, comma 2°, c.c.), sicché deve ritenersi che – con la scrittura privata stipulata tra le parti – Tizio abbia concesso a Caio un mero diritto personale di parcheggio, inidoneo a essere qualificato come diritto reale di servitù. Sussistono, infatti, tutti i presupposti della conversione del contratto nullo (art. 1424 c.c.), così come interpretati dalla giurisprudenza più recente (Cass. 5 marzo 2008, n. 6004), ossia: il rapporto di obiettiva continenza fra il contratto nullo ed il contratto valido, attesa la natura relativa del diritto personale di parcheggio, e la coincidenza tra l’intento negoziale originario e quello sotteso al contratto in cui il primo potrebbe essere convertito, da accertarsi con indagine «diretta a stabilire se la volontà che indusse le parti a stipulare il contratto nullo possa ritenersi orientata anche verso gli effetti del contratto diverso». Il requisito che le parti avrebbero voluto il diverso contratto valido, «se avessero conosciuto la nullità», deve, infatti, essere interpretato come idoneità del contratto valido a realizzare, in tutto o in parte, l’intento perseguito, non già come accettazione del contratto trasformato, «poiché ciò comporterebbe la coscienza della nullità dell’atto compiuto, esclusa per definizione dall’articolo 1424 Codice Civile» (Cass. 27 febbraio 2002, n. 2912; conf. Cass. 27 ottobre 2006, n. 23145).
Posto che Alfa può invocare la nullità del contratto stipulato tra Tizio e Caio quale contratto costitutivo di servitù (art. 1421 c.c.), è necessario stabilire se il mero diritto personale di godimento possa essere comunque opponibile ad Alfa, in quanto espressamente menzionato nel contratto di compravendita del bene tra Tizio ed Alfa.
A tal fine è essenziale rilevare l’atipicità del contratto controverso, che la Corte di Cassazione, in un caso analogo, ha escluso di poter inquadrare nello schema della locazione, osservando che una previsione negoziale di tal sorta «non è legittimamente annoverabile, neanche lato sensu, tra i contratti di locazione – sia pur con riferimento all’ampia previsione di cui all’art. 1571 – attesa la limitata utilizzabilità prevista con riferimento al bene oggetto della stipulazione», qual è la «porzione del fondo» concessa in godimento a Caio, «ma integra gli estremi del contratto innominato dal quale scaturisce, del tutto legittimamente, un diritto personale di godimento afferente ad un bene immobile» (Cass. 10 gennaio 2002, n. 270).
Pertanto, ne consegue che, avendo l’art. 1599 c.c. carattere eccezionale, la previsione ivi contenuta in ordine all’opponibilità ai terzi del diritto personale di godimento del locatore non può essere applicata analogicamente ad altri rapporti obbligatori costitutivi di diritti personali. È sufficiente rilevare, invero, come – al fine di assicurare tutela al coniuge assegnatario della casa familiare in sede di divorzio nei confronti del terzo acquirente dell’immobile – si sia reso necessario, a suo tempo, che la l. 6 marzo 1987, n. 74, introducesse espressamente nell’art. 6, comma 6°, il richiamo testuale all’art. 1599 c.c., non potendosi supplire alla lacuna normativa in via ermeneutica.
Così come, perciò, l’art. 1599 c.c. non si applica al comodato (Cass. 15 maggio 1991, n. 5454), allo stesso modo la medesima norma non può trovare applicazione a contratti costitutivi di diritti personali atipici, quale il diritto di parcheggiare l’autovettura su fondo altrui, di cui al caso in esame.
E’ irrilevante e priva di effetti, quindi, ai fini della salvezza del diritto di Caio, la dichiarazione contenuta nel testo della compravendita fra Tizio ed Alfa attestante l’esistenza dell’asserita servitù di parcheggio gravante sul terreno, che sicuramente non può configurarsi neppure come cessione del relativo contratto per mancato consenso della parte ceduta (art. 1406 c.c.).
In conclusione, si consiglia alla società Alfa di esercitare l’azione negatoria di servitù (art. 949 c.c.) nei confronti di Caio, stante la nullità del contratto di costituzione di «servitù di parcheggio» e l’inopponibilità nei propri confronti del diritto personale di godimento, e di domandare il conseguente rilascio della porzione di fondo occupata senza titolo da Caio.
TRACCIA 1
TIZIO, PROPRIETARIO, CONCEDE IN LOCAZIONE UN APPARTAMENTO A CAIO CHE LO ADIBISCE AD ABITAZIONE PROPRIA E DELLA PROPRIA FAMIGLIA.
IN PROSSIMITà DELLA SCADENZA DEL CONTRATTO TIZIO INTIMA LICENZA PER FINITA LOCAZIONE E CITA IN GIUDIZIO CAIO PER LA CONVALIDA. ALL’UDIENZA FISSATA PER LA CONVALIDA CAIO COMPARE PERSONALMENTE E NON SI OPPONE E IL GIUDICE CONVALIDA LA LICENZA, FISSANDO PER IL RILASCIO LA DATA DEL 10/01/2014. CAIO NON ADEMPIE E TIZIO GLI NOTIFICA QUUINDI IL 20/02/2014 ATTO DI PRECETTO; IN DATA 31/03/2014 L’UFFICIALE GIUDIZIARIO NOTIFICA A CAIO PREAVVISO DI RILASCIO PER LA DATA DEL 20/07/2014.
CAIO IL 10/05/2014 SI RECA IN VACANZA PER ALCUNI GIORNI CON LA SUA FAMIGLIA E IN DATA 20/05/2014, AL SUO RIENTRO, VERIFICA DI NON ESSERE IN GRADO DI RIENTRARE NELL’APPARTAMENTO UTILIZZANDO LE CHIAVI IN SUO POSSESSO. iNTERPELLA QUINDI TIZIO IL QUALE GLI SPIEGA DI AVERE PROVVEDUTO EGLI STESSO A CAMBIARE LA SERRATURA DELLA PORTA D’INGRESSO. PUR OFFRENDO LA RESTITUZIONE DEI BENI DI CAIO ANCORA PORESENTI IN CASA, TIZIO DICHIARA DI NON ESSERE DISPOSTO A CONSEGNARGLI LE NUOVE CHIAVI IN QUANTO EGLI RITIENE DI AVERE AGITO LEGITTIMAMENTE IN vIRTù DEL TITOLO ESECUTIVO. ASSUNTE LE VESTI DEL DIFENSORE DI CAIO IL CANDIDATO ILLUSTRI LE QUESTIONI SOTTESE AL CASO IN ESAME, EVIDENZIANDO IN PARTICOLARE QUALI INIZIATIVE POSSA INTRAPRENDERE IL PROPRIO ASSISTITO AL FINE DI RIPRENDERE IL GODIMENTO DELL’IMMOBILE IN QUESTIONE.
Traccia n. 1
Le problematiche inerenti al caso in esame sono costituite dalla configurabilità di un titolo di detenzione in capo al conduttore di un bene immobile dopo la convalida di sfratto e, conseguentemente, dalla legittimità del comportamento del locatore che gli impedisca l’accesso all’immobile.
La locazione è un contratto di durata, consensuale e con effetti obbligatori con cui una parte concede all’altra il godimento di un bene, mobile o immobile, verso il pagamento di un corrispettivo (artt. 1571 ss. c.c.). Il conduttore acquista un diritto personale di godimento (art. 1380 c.c.) e diventa detentore del bene locato nell’interesse proprio.
Com’è noto, al contrario del possesso – che consiste nella relazione di fatto con il bene corrispondente all’esercizio di un diritto reale, la detenzione indica quella relazione materiale tra un soggetto e un bene derivante da un titolo (contratto, provvedimento giudiziario, atto amministrativo, disposizione di legge), che attribuisce o un diritto personale di godimento del bene (es. comodato) o una mera obbligazione (es. deposito). Mentre il detentore titolare di un diritto personale di godimento, vantando un interesse proprio alla relazione col bene, può ottenere tutela con l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.) nei confronti di chiunque (anche dello stesso possessore mediato) lo abbia privato della detenzione in modo occulto o clandestino; al contrario la detenzione non qualificata, che si configura nel caso di relazione materiale col bene funzionale all’adempimento di un’obbligazione (ad esempio, la detenzione dell’appaltatore), legittima il detentore ad agire in reintegrazione solo nei confronti dei terzi e mai, invece, contro il possessore, nel cui interesse egli detiene (art. 11682 c.c.).
Il presupposto oggettivo dell’azione di reintegrazione è rappresentato dallo «spoglio», cioè dalla sottrazione, totale o parziale, del bene dalla sfera della disponibilità del possessore o detentore, sicché la condotta dell’autore impedisce, in tutto o in parte, l’esercizio del potere di fatto sulla cosa (Cass. 13 febbraio 1987, n. 1577). In ciò lo spoglio si distingue dalla molestia, che ha il più limitato effetto di frapporre un ostacolo all’esercizio del possesso.
Lo spoglio, inoltre, deve presentare i requisiti della clandestinità e della violenza, da intendersi quest’ultima non necessariamente come violenza morale o materiale sulle cose o sulla vittima dello spoglio, bensì come azione contraria alla volontà, dichiarata o presunta, del possessore o del detentore (Cass. 29 gennaio 1993, n. 1131). In assenza di tale requisito, lo spoglio (cd. semplice) legittima all’azione di reintegrazione solo nel caso in cui il possesso duri da oltre un anno, continuo e non interrotto e non sia stato acquistato violentemente o clandestinamente (art. 1170, ult. comma, c.c.).
La “clandestinità” dello spoglio richiede, invece, che l’autore abbia agito senza la presenza dell’interessato, e deve essere valutata esclusivamente in rapporto al possessore o al detentore, a nulla rilevando che l’autore dello spoglio abbia agito in modo palese e noto ad altri (Cass. 26 novembre 2011, n. 8784).
Quanto alla necessità di un elemento soggettivo per poter qualificare un comportamento come spoglio, in assenza di un’esplicita previsione di legge, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (Cass. 22 novembre 1994, n. 9871), ha escluso la necessità del cd. animus spoliandi, ritenendo sufficiente, ai fini della risarcibilità del danno derivante dallo spoglio, che sussista il dolo o la colpa, valutato secondo i criteri di cui all’art. 2043 c.c.
Il danno risarcibile a causa del sofferto spoglio consiste nella diminuzione patrimoniale sofferta per il tempo in cui si è protratta la condotta illecita del suo autore e la relativa domanda di risarcimento soggiace alla prescrizione quinquennale propria dell’illecito aquiliano ex art. 2947 c.c., ferma restando la possibilità che sia proposta unitamente alla domanda di reintegra (conf. Cass. 27 ottobre 2005, n. 20875).
Tanto osservato, la condotta di Tizio, che approfitta dell’assenza di Caio e della sua famiglia per sostituire la serratura della porta di accesso all’immobile oggetto della finita locazione, integra sicuramente uno spoglio.
Più problematica, ma ugualmente meritevole di risposta affermativa, è la questione se, una volta scaduto il termine di durata del contratto, l’ex-conduttore possa ritenersi ancora detentore qualificato del bene. Invero, al momento della cessazione del rapporto di locazione, se il conduttore conserva la disponibilità dell’immobile, si instaura fra le parti un rapporto obbligatorio geneticamente collegato al precedente, in virtù del quale, a fronte del persistente godimento del bene, il locatario assume ex lege (art. 1591 c.c.) l’obbligo di pagare un corrispettivo coincidente con l’importo del canone locatizio commisurato alla durata della permanenza ulteriore.
Tale rapporto collegato costituisce titolo legale ed extranegoziale di detenzione qualificata del bene e, come tale, legittima il conduttore all’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.) nei confronti di chiunque, ivi compreso il proprietario-locatore e possessore mediato. L’estinzione del rapporto contrattuale, quindi, non rende di per sé il conduttore un occupante sine titulo né consente di qualificare la conservazione della relazione materiale con la res quale atto di interversione del possesso (art. 1140 c.c.).
Tale interpretazione del disposto dell’art. 1591 c.c. è conforme alla giurisprudenza di legittimità formatasi in tema, secondo la quale «il locatore, il quale abbia ottenuto in sede giurisdizionale il titolo esecutivo per il rilascio dell’immobile, non» può «agire direttamente, con azioni violente o clandestine, per privare, in tutto o in parte, il conduttore, della disponibilità dell’immobile e delle sue pertinenze» (Cass. 1 settembre 2014, n. 18468).
Particolarmente significativa in proposito è, inoltre, la pronuncia con cui il Supremo Collegio ha escluso la facoltà del conduttore di rendere unilateralmente gratuita la detenzione successiva alla scadenza del contratto in virtù del mancato utilizzo del bene, (Cass. 5 giugno 2013, 15876), rilevando che «dal momento della cessazione del rapporto di locazione sino a quello del pagamento dell’indennità si viene ad instaurare tra le parti un rapporto ex lege geneticamente collegato al precedente, fondato per una parte sulla protrazione della detenzione del bene e per l’altra sul pagamento di un corrispettivo coincidente con quello del rapporto contrattuale».
Alla luce delle osservazioni svolte, la pretesa di Caio alla reintegrazione è pienamente fondata.
A fronte del mancato rilascio, da parte sua, dell’immobile, Tizio ha provveduto, in qualità di creditore, titolare del diritto alla riconsegna, a notificare il precetto, che è qualificabile come una intimazione ad adempiere, il cui termine ultimo, nel caso di specie, era fissato al 20 luglio 2014.
Prima della scadenza di tale termine, però, Tizio compie un atto di autotutela che è illegittimo, in quanto contrario alla disciplina dei termini processuali e ai «principi generali dell’ordinamento», che non consentono «al privato – se non eccezionalmente – il diritto di “autotutela”» (Cass., 16 gennaio 2014, n. 820).
Come precisato dalla Suprema Corte, infatti, il titolo esecutivo «riconosce il diritto di una parte contro l’altra e consente di realizzare il passaggio dal dover essere (diritto contenuto nel titolo) all’essere (realtà materiale corrispondente al diritto consacrato nel titolo), all’interno delle regole della convivenza civile» (Cass. 1 settembre 2014, n. 18468) e non con un esercizio arbitrario delle proprie ragioni, che avrà sicuramente cagionato a Caio un danno patrimoniale, quantomeno per le spese necessarie alla ricerca di un alloggio alternativo all’immobile locato per sé e la propria famiglia.
In conclusione, si consiglia a Caio di agire per la reintegrazione nella detenzione dell’immobile, precedentemente locatogli da Tizio, ex art. 1168 c.c. e di proseguire il giudizio anche nella successiva fase di merito, per domandare l’accertamento della legittimità della propria detenzione e la condanna di Tizio al risarcimento dei danni subiti ex art. 2043 c.c.