App. Firenze 01.04.2014 (ancora sugli atti di frode ai creditori)

Questa settimana pubblichiamo sul sito dell’osservatorio  la sentenza con la quale la Corte di appello di Firenze ha, in data 1 aprile 2014, rigettato il reclamo avverso la sentenza resa dal Tribunale di Pisa il 13 novembre 2013 ed avente ad oggetto la dichiarazione di fallimento di una S.p.a. ed il diniego di omologa del concordato preventivo da questa promosso.

Il provvedimento è estremamente interessante perché contiene un dettagliato approfondimento sugli atti di frode rilevanti ex art. 173 L.F.

I Giudici fiorentini, in primo luogo, richiamano (come aveva già fatto il Tribunale di Pisa) la massima della Cass. 23387/2013, secondo la quale “gli atti di frode, presupposto della revoca dell’ammissione al concordato preventivo ai sensi dell’art. 173 legge fall., non possono più essere individuati semplicemente negli atti in frode ai creditori, di cui agli artt. 64 e ss. legge fall., ovvero comunque in comportamenti volontari idonei a pregiudicare le aspettative di soddisfacimento del ceto creditorio, ma esigono che la condotta del debitore fosse volta a occultare situazioni di fatto idonee ad influire sul giudizio dei creditori, cioè situazioni che, da un lato, se conosciute, avrebbero presumibilmente comportato una valutazione diversa e negativa della proposta e, dall’altro siano state ‘accertate’ dal commissario giudiziale, cioè da lui ‘scoperte’, essendo prima ignorate dagli organi della procedura o dai creditori. Ne consegue che, ai fini della revoca dell’ammissione al concordato, rilevano solo gli atti non espressamente indicati nella proposta che abbiano una valenza decettiva tale da pregiudicare il consenso informato dei creditori ancorché annotati nelle scritture contabili, fermo restando che, ai fini della revoca dell’ammissione, il silenzio del debitore nella proposta di concordato e nei suoi allegati e l’accertamento del commissario devono riguardare non una qualsiasi operazione risultante dalle scritture contabili, ma solo quelle suscettibili di assumere rilevo per soddisfacimento dei creditori in caso di fallimento e in caso di concordato preventivo, come i pagamenti preferenziali nei sei mesi anteriori alla domanda di concordato”.

In seguito, la Corte sottolinea che, ai fini del giudizio ex art. 173 L.F., è assolutamente irrilevante la convenienza del concordato rispetto al fallimento, essendo viceversa determinante la completezza delle informazioni rese al ceto creditorio in occasione della proposta. “Davanti al compimento di atti in frode”, si dice in sentenza, “persino la proposta più allettante va scartata, in quanto ferisce principi superiori irrinunciabili, dettati a protezione della serietà, prima ancora della legalità, della definizione concorsuale dell’insolvenza nel rispetto della par condicio creditorum”.

Ritengo quindi che i diktat della Corte possano servire (almeno per quanto riguarda il territorio toscano) da linee guida per un giudizio, quale quello previsto e disciplinato dall’art. 173 L.F., ancora in gran parte inesplorato.

Buona lettura

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. ___________ R.G.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE D’APPELLO DI FIRENZE

SEZ. I CIV.

 

Composta dai magistrati:

Dott. Pietro Mascagni                                                  Presidente

Dott. Andrea Riccucci                                                 Consigliere

Dott. Edoardo Monti                                                   Consigliere rel.

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Sul reclamo proposto ex. Artt. 18 e 183 l.f.

da

-          S. s.p.a., rappresentata e difesa dagli Avv.ti _____________e _____________ per delega in atti, con domicilio eletto in Firenze via ______________ presso lo studio dei medesimi.

reclamante

contro

-          Fallimento S. s.p.a.

reclamato contumace

-          W., rappresentata e difesa dagli Avv.ti ___________ e _____________ per delega in atti, con domicilio eletto in Firenze via __________ presso lo studio dell’Avv. _____________

reclamata

-          E., rappresentata e difesa dagli Avv.ti _____________e _____________ per delega in atti, con domicilio eletto in Firenze _____________ presso lo studio della seconda.

reclamata

-          B. s.p.a.

reclamata contumace

-          R.

reclamata contumace

con l’intervento del

-          Pubblico Ministero, rappresentato dal Procuratore Generale della Repubblica avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Pisa il 13 novembre 2013 n. 80 ed il contestuale decreto aventi ad oggetto la dichiarazione di fallimento ed il diniego di omologa del concordato preventivo.

Sulle seguenti

CONCLUSIONI

-          per la reclamante:

in accoglimento del reclamo, revocare la dichiarazione di fallimento e revocare, riformare e/o annullare e rendere privo di effetti il contestuale decreto che ha negato l’omologa del concordato preventivo e per l’effetto omologare il concordato preventivo della S. s.p.a. o assumere i provvedimenti ritenuti più idonei, con vittoria di spese

-          per W. :

rigettare il reclamo e confermare i provvedimenti impugnati, con sentenza provvisoriamente esecutiva e con vittoria di spese

per E. :

respingere il reclamo ex artt. 183 e 18 l.f., con vittoria di spese

-          per il Pubblico Ministero:

visto il 25 febbraio 2014, non si esprime

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con decreto del 17 gennaio 2013, pendente l’istanza di fallimento di R., il Tribunale di Pisa ammetteva S. s.p.a. alla procedura di concordato preventivo, sulla base di una proposta che contemplava il pagamento integrale delle spese in prededuzione e dei creditori privilegiati, nonché il pagamento quanto meno al 18,47% dei creditori chirografari, senza delineare suddivisioni in classi.

Sebbene il commissario giudiziale avesse ridotto al 4,985 (9,605 con utilizzo del fondo rischi) la presumibile soddisfazione del ceto chirografario, l’adunanza dei creditori approvava la proposta, sicché aveva inizio il giudizio di omologa.

Il commissario giudiziale esprimeva parere favorevole, seppure condizionato, segnalando una serie di criticità verso il buon esito della procedura.

I creditori W., K., E., B. s.p.a. si opponevano all’omologazione, contestandone sotto vari profili i presupposti.

Con decreto del 13 novembre 2013, il Tribunale di Pisa, ravvisati comportamenti del debitore rilevanti nella prospettiva dell’art. 173 l.f., negava l’omologazione del concordato preventivo e, con contestuale sentenza, dichiarava il fallimento della S. s.p.a.. Nella motivazione, in estrema sintesi, il Tribunale riteneva che per configurare atti di frode non fosse necessario il dolo intenzionale del debitore, ma fosse sufficiente la consapevolezza di tacere circostanze rilevanti sulle condizioni della procedura, di cui i creditori avrebbero dovuto essere informati per poter valutarne compiutamente la convenienza e la fattibilità. Nella specie, era stata occultata in tutto o in parte l’esistenza di significative pretese creditorie, come quelle di S., E., I. e W., inoltre erano state esposte attività inesistenti, segnatamente crediti commerciali già ceduti ad U. e giacenze di magazzino non materialmente disponibili, o comunque non liberamente commerciabili (per vincoli contrattuali con D.). D’altra parte, il fatto che gli atti in frode fossero stati rilevati dal commissario giudiziale e sottoposti ai creditori non esimeva il giudice dall’arrestare una procedura scorrettamente impostata, quale che fosse l’opinione della massa.

Col reclamo ex artt. 18-183 l.f. depositato il 29 novembre 2013, la fallita si duole della decisione, sulla base di motivi che possono essere riepilogati come segue:

-          il Tribunale ha in congruamente ipotizzato un occultamento di passività dell’ordine di 24/30 milioni di euro con riferimento alla posizione W., quando lo stesso creditore aveva dichiarato un credito di  euro 5.350.000,00 ed il Giudice Delegato aveva ammesso il voto per euro 4.850.000,00, del resto i creditori erano stati informati, seppur tardivamente, del contenzioso in essere con tale controparte, eppure avevano in maggioranza approvato la proposta;

-          non può essere inoltre trascurata la presenza di un fondo rischi di circa euro 1.000.000,00, che, tradotto in moneta concordataria (secondo la prognosi di soddisfazione del 3,89% formulata dal Commissario Giudiziale nel parere ex art. 180 l.f.), fornisce una valida copertura del fabbisogno e consente l’adempimento della proposta formulata ai creditori;

-          le pretese di W.  (e quelle connesse di M.C. e G.M.) erano contestate davanti al tribunale di Roma e, nelle peggiore ipotesi, avrebbero potuto incidere sulla percentuale di soddisfazione concordataria in misura dello 0,72% da ritenersi trascurabile;

-          le richieste di S., peraltro di scarso valore, si riferivano ad una indennità di preavviso per anticipata riconsegna di vani in locazione, non solo dovuta, ma nemmeno prospettata al di fuori della procedura;

-          le presunte cessioni di portafoglio commerciale ad U. non erano documentate, non erano opponibili alla massa dei creditori e non erano state neppure notificate ai supposti debitori ceduti, sicché i crediti inerenti facevano ancora parte del patrimonio dell’impresa, tant’è che svariati destinatari delle fatture avevano continuato ad esigere i pagamenti alla S.;

-          E.  era stata indicata nella proposta di concordato come titolare di un credito chirografario di circa 555.000,00, mentre vantava la somma di euro 2.152.000,00 circa ed era stata ammessa al voto per 990.000,00, dunque la divergenza non era stata sottaciuta, ma esplicitata ai creditori, e del resto avrebbe influito sui destini della procedura in modo molto marginale, traducendosi in circa euro 45.000,00 di moneta concordataria;

-          le perdite verificatesi nelle giacenze di magazzino in deposito presso I. erano state una sorpresa per la stessa S. e comunque erano, per così dire, controbilanciate dalla responsabilità contrattuale del depositario negligente, sicché i creditori non avevano nulla da temere dalla vicenda, il cui impatto pratico era comunque irrisorio nell’economia del concordato;

-          in ordine alla merce con il marchio D., era tuta da dimostrare la validità e l’opponibilità alla procedura del preteso vincolo di distribuzione commerciale e comunque la questione era stata posta soltanto dopo l’instaurazione della procedura, sicché al debitore non poteva essere imputata alcuna reticenza al riguardo;

-          in sintesi, i fatti ritenuti rilevanti ex art. 173 l.f. erano a ben vedere insussistenti sotto il profilo oggettivo e comunque non assistiti dall’elemento soggettivo, dunque non potevano assolutamente giustificare, contro il parere del Commissario Giudiziale, il diniego dell’omologazione, anche perché la sistemazione concordataria dell’insolvenza risultava decisamente più conveniente di quella fallimentare ed aveva il pregio di superare la crisi d’impresa “mantenendo il meglio di una produzione manifatturiera nel tessuto sociale italiano” (pag. 49 appello);

-          in particolare, dal punto di vista oggettivo, non erano propriamente configurabili atti in frode e comunque gli atti contestati non alteravano la rappresentazione della situazione patrimoniale al punto da viziare l’espressione del voto, anche perché tutte le questioni ritenute ostative dal Tribunale erano state sottoposte ai creditori prima dell’adunanza e non avevano impedito l’approvazione della proposta a larga maggioranza;

-          tra l’altro, l’indubbia convenienza del concordato preventivo rispetto al fallimento non era riducibile al solo “momento economico” (ib. Pag. 53), ma investiva “ componenti diverse e forse più essenziali, quali la volontà del creditore di consentire il mantenimento di una attività produttiva (nella fattispecie attuata in via indiretta con l’affitto di azienda) (…) o di continuare rapporti di fornitura” inoltre consentiva a “molti lavoratori di conservare il posto di lavoro” (ib.);

-          dal punto di vista soggettivo, nulla poteva far pensare che la S. avesse deliberatamente nascosto circostanze in grado di influenzare negativamente il voto dei creditori, che in ogni caso erano avvantaggiati dalla soluzione concordataria e non avevano alcun bisogno di stimoli artificiosi per preferirla al fallimento.

Mentre la curatela e gli altri creditori sono rimasti contumaci, E. e W. si sono costituiti in giudizio contestando la fondatezza del gravame e difendendo le ragioni della sentenza impugnata.

Dopo un rinvio determinato dalla necessità di acquisire documentazione sullo svolgimento della vicenda del concordato, la causa è stata trattenuta in decisione all’udienza camerale odierna.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il Tribunale ha negato l’omologazione ravvisando fatti rilevanti nella prospettiva dell’art. 173 l.f.. Stando all’orientamento più aggiornato, “gli atti di frode, presupposto della revoca dell’ammissione al concordato preventivo ai sensi dell’art. 173 legge fall., non possono più essere individuati semplicemente negli atti in frode ai creditori, di cui agli artt. 64 e ss. legge fall., ovvero comunque in comportamenti volontari idonei a pregiudicare le aspettative di soddisfacimento del ceto creditorio, ma esigono che la condotta del debitore fosse volta a occultare situazioni di fatto idonee ad influire sul giudizio dei creditori, cioè situazioni che, da un lato, se conosciute, avrebbero presumibilmente comportato una valutazione diversa e negativa della proposta e, dall’altro siano state ‘accertate’ dal commissario giudiziale, cioè da lui ‘scoperte’, essendo prima ignorate dagli organi della procedura o dai creditori. Ne consegue che, ai fini della revoca dell’ammissione al concordato, rilevano solo gli atti non espressamente indicati nella proposta che abbiano una valenza decettiva tale da pregiudicare il consenso informato dei creditori ancorchè annotati nelle scritture contabili, fermo restando, che, ai fini della revoca dell’ammissione, il silenzio del debitore nella proposta di concordato e nei suoi allegati e l’accertamento del commissario devono riguardare non una qualsiasi operazione risultante dalle scritture contabili, ma solo quelle suscettibili di assumere rilevo per soddisfacimento dei creditori in caso di fallimento e in caso di concordato preventivo, come i pagamenti preferenziali nei sei mesi anteriori alla domanda di concordato” (massima tratta da Cass. n. 23387/2013). Nell’assetto uscente dalla riforma ultimata nel 2007, la convenienza del concordato preventivo esula ormai dalla valutazione del Tribunale, così come la generale meritevolezza dell’imprenditore, tuttavia rimane fermo ed inderogabile il meccanismo sanzionatorio previsto dall’art. 173 l.f. in funzione di contrasto di eventuali condotte ingannevoli del debitore tese a compromettere la valutazione informata del ceto creditorio. L’accentuata fisionomia negoziale dell’operazione concordataria impone anzi di salvaguardare nel modo più rigoroso la lealtà della rappresentazione che ne viene fatta ai creditori: proprio perché questi sono liberi e sovrani di accettare qualunque tipo di proposta, senza potersi giovare di una salvaguardia d’ufficio sulla sua decadenza economica e morale, diventa ancor più importante garantire l’esaustività e la correttezza dell’informazione in base alla quale è destinato a formarsi il consenso.

Nello schema legale vigente, il disposto dell’ art. 173 l.f. resta insomma l’unico baluardo atto ad impedire che, al danno dell’insolvenza, si aggiunga la beffa di una definizione concorsuale viziata e indecente, sicché la soglia di attenzione in materia dev’essere alta, guidata dal basilare principio per cui “nella valutazione delle condizioni prescritte per l’ammissibilità del concordato preventivo, qualunque sia la sede in cui avvenga (ammissione ex art, 162, secondo comma; revoca ex art. 173 terzo comma;omologazione ex art. 180, terzo comma, legge fall.), al tribunale non è consentito il controllo sulla regolarità ed attendibilità delle scritture contabili, ma è permesso il sindacato sulla veridicità dei dati aziendali esposti nei documenti prodotti unitamente al ricorso (art. 161, secondo comma, lett. a,b,c e d, legge fall.), sotto il profilo della loro effettiva consistenza materiale e giuridica, al fine di consentire ai creditori di valutare, sulla base di dati reali, la convenienza della proposta e la stessa fattibilità del piano” (massima da Cass. n. 2130/2014).

La difesa S. sottolinea ripetutamente nel reclamo la conveni9enza del concordato rispetto al fallimento. Va subito rilevato che tale aspetto non assume alcuna rilevanza nella logica dell’art. 173 l.f., che, come s’è detto, è completamente disomogenea, avendo lo scopo di istituire una clausola di salvaguardia sulla correttezza della procedura, in funzione di prevenzione generale e a difesa di valori d’ordine pubblico. Davanti al compimento di atti in frode, persino la proposta più allettante va scartata, in quanto ferisce principi superiori irrinunciabili, dettati a protezione della serietà, prima ancora della legalità, della definizione concorsuale dell’insolvenza nel rispetto della par condicio creditorum.

Altrettanto diffusamente, nel prolisso atto d’impugnazione, la difesa insiste nel menzionare la previsione di un consistente fondo rischi, capace di assorbire, una volta tradotto in moneta concordataria, sopravvenienze passive o minusvalenze nell’attivo di assoluta rilevanza, senza compromettere l’adempimento del concordato.

Si tratta, ancora una volta di un discorso irrilevante nella prospettiva dell’art. 173 l.f.: i creditori sapevano infatti di poter contare sul fondo rischi, ma avevano comunque diritto ad essere informati correttamente sul passivo e l’attivo della procedura, se non altro perché, in assenza novità sfavorevoli, il fondo sarebbe stato utilizzato per incrementare la percentuale di soddisfazione concordataria. L’avere istituito un congruo fondo rischi non autorizzava insomma il debitore a tacere i fattori di rischio conosciuti sulle prospettive del concordato, che andavano lealmente sottoposti all’esame dei creditori. Del resto, è censurabile che la S. tenda a gonfiare l’impatto del fondo rischi in moneta concordataria, infine svilita dal commissario giudiziale al 3,89% del nominale, quando nella proposta era annunciato ai chirografi un pagamento minimo del 18,47%.

Detto questo, prima di affrontare i singoli rapporti su cui si sono appuntate le valutazioni negative del Tribunale, resta da osservare, sempre sul piano generale, che molti rapporti d’impresa, segnatamente di una società di capitali come la S., possono andar soggetti a contestazioni. E’ chiaro che per decidere le sorti di un concordato preventivo, così come per accertare l’insolvenza, non si può attendere che tutte le pendenze siano definite con sentenza passata in giudicato, dunque bisogna individuare un criterio alternativo obbiettivo per rappresentare adeguatamente la situazione. Del resto, il problema della valutazione dei crediti/debiti contenziosi non si pone soltanto nella situazione patologia del dissesto, ma anche nel fisiologico svolgimento dell’attività commerciale, segnatamente al momento della redazione periodica dei bilanci d’esercizio, che devono rappresentare in modo veritiero la consistenza economica dell’impresa, ovviamente influenzata dalla grandezza effettiva delle poste creditorie/debitorie. Le norme vigenti ed i principi contabili generalmente accettati impongono di attenersi ad un prudente apprezzamento del presumibile valore di realizzo della partita controversa (da intendersi tanto nella prospettiva favorevole della riscossione del credito contestato), in modo che si sottrae al sindacato del giudice finché l’iscrizione si mantenga entro i limiti della ragionevolezza, senza sconfinare nell’arbitrio, fermo restando l’obbligo dell’imprenditore di dare conto motivatamente del criterio estimativo adottato nell’esporre i propri dati patrimoniali e reddituali. Quando la situazione si presenti particolarmente aleatoria e incisiva sugli equilibri di bilancio, diventa tuttavia obbligatoria l’annotazione di un congruo fondo svalutazione crediti (propri), ovvero di un fondo rischi (per le pretese creditorie altrui), che ammortizzi prudentemente il possibile esito delle contestazioni e consenta ai terzi interlocutori di farsi un’idea realistica della solidità/debolezza dell’impresa, che non è fatta solo di elementi certi, ma che in gran parte dipende da incerte aspettative future, destinate a riflettersi sull’esito della procedura concorsuale, non diversamente da come si riflette nella gestione ordinaria.

Nel formulare una proposta di concordato preventivo, il debitore deve quindi descrivere fedelmente la propria situazione patrimoniale, attenendosi ai criteri dianzi indicati, che sono in fondo gli stessi posti a presidio della redazione del bilancio.

Nella specie, l’analisi dei rapporti controversi riferibili a S. mostra che tale società, seppure in misura inferiore a quella indicata dal Tribunale, ha consapevolmente celato ai creditori situazioni debitorie, in parti litigiose, ma di indubbia ed imprescrittibile rilevanza, tali da integrare la condotta fraudolenta sanzionata dall’art. 173 l.f. in quanto suscettibili di alterare la valutazione informata dei creditori sulla convenienza e sulla fattibilità della proposta concordataria.

L’omissione più eclatante – e di per sé decisiva – riguarda il rapporto contenzioso con W.. Il Tribunale vi ha dedicato ampia attenzione, per arrivare a concluderne che il debitore aveva tralasciato d’informare il ceto creditorio di una possibile condanna fino ad euro 24.000.000,00 “pari a oltre il 100% dei crediti ammessi al voto”.

L’affermazione va invero ridimensionata, ove si consideri che il Giudice Delegato, messo a conoscenza di tutte le problematiche inerenti, ha infine ritenuto  d’accordo col commissario giudiziale, di dover rimettere in termini il creditore ai fini del voto per importo di euro 4.850.000,00.

Se questa, allo stato, è l’opinione “informata” del giudice, non si può imputare al debitore il doloso occultamento di altri 19.150.000,00 di debiti, la cui esclusione trova oggettivo riscontro nella decisione giudiziale interna alla procedura, Così fissato il tetto dell’omissione, bisogna nondimeno riconoscerne la notevolissima rilevanza, in quanto per l’effetto essa innalza la massa chirografaria da euro 22.477.294,00 ad euro 27.327.294,00 in misura del 21,5%. Come si accennava, non spetta a questo giudice stabilire se la pretesa di W. sia fondata o meno, ma occorre fermamente rilevare che una pretesa creditoria di tale grandezza non poteva venire sottratta all’analisi dei creditori senza incorrere nella violazione dell’art 173 l.f.. La controversia di riferimento è stata definita in primo grado dal Tribunale di Roma con sentenza n. 7692 depositata il 10 aprile 2013, quindi in epoca successiva all’ammissione del concordato preventivo, tuttavia è chiaro che nel formulare poco prima la domanda di accesso alla procedura concorsuale S. doveva avere ben presente la pendenza dell’azione avversa, suscettibile di sconvolgere gli equilibri e la fattibilità della proposta rivolta ai creditori. Pertanto, la società era tenuta, in ossequio ai criteri inderogabili di trasparenza sopra enunciati, ad esplicare prudenzialmente la partita nella propria situazione debitoria, mentre la posizione di W. Risulta del tutto pretermessa nell’elenco nominativo dei creditori ed inserita nel piano concordatario tra i fornitori in contenzioso per l’importo, relativamente misero, di euro 820.397,84, tant’è che, come s’è già ricordato, il Giudice Delegato è stato poi costretto a rimettere il creditore in termini per l’espressione del voto, senza poter tuttavia rimuovere la circostanza che gli altri creditori avevano già votato restando all’oscuro della problematica, d’impatto potenzialmente esiziale per l’adempimento della proposta nella percentuale annunciata al ceto chirografario. La rilevanza della vicenda è tale da rendere risibile l’ipotesi dell’omissione colposa (proponendo un concordato, non si può sbadatamente dimenticare più di 1/5 dell’indebitamento potenziale) e da costringere, per converso, a ritenere intenzionale l’occultamento della posizione in esame, scoperta e messa in luce dal commissario giudiziale, al punto da rendere necessaria la riapertura del voto, in modo che certifica in sede endoconcorsuale l’innegabile rilevanza della vicenda.

Tanto basterebbe a giustificare ex art. 173 l.f. il diniego di omologazione, ma altre analoghe situazioni, seppure di minore impatto, lasciano intravedere la volontà della società proponente di abbellire i dati allo scopo di accattivarsi la benevolenza dei creditori ammessi al voto.

Si allude, in primo luogo, alla posizione della Sa., ritenuta dal commissario giudiziale obiettivamente titolare di un credito prededucibile dell’ammontare di euro 74.423,71, completamente pretermesso dal debitore nell’esposizione delle passività, che si riferisce a canoni di locazione maturati dopo il deposito della domanda di ammissione di concordato preventivo. La tesi difensiva- secondo cui il debito sarebbe stato coperto, fino all’importo dovuto a seguito del recesso anticipato dal contratto, dal rilascio di una fideiussione bancaria a prima richiesta dell’importo di euro 138.000,00 in luogo del deposito cauzionale – non pare per niente convincente, ove si consideri che non consta una formale restituzione al locatore del bene, del resto tuttora di fatto occupato da beni della S., il che fa ritenere inevitabile la debenza in prededuzione del canone fino alla completa liberazione dei locali. Anche in questo caso, l’evidenza della situazione rende difficile pensare ad una semplice negligenza, anche perché il rilascio della fideiussione sarebbe dovuta emergere quanto meno nei conti d’ordine.

Simili considerazioni valgono per la posizione di E., rispetto alla quale lo scarto tra rappresentazione effettuata e quella dovuta del peso debitorio viene nitidamente espresso dal confronto tra l’importo di euro 555.263,00 inserito dalla società proponente nell’elenco dei creditori e quello di euro 990.000,00 per cui il creditore è stato invece ammesso al voto del Giudice Delegato, tenuto conto del contenzioso davanti al Tribunale ordinario di Pisa. In sostanza, l’adozione di un sano criterio prudenziale nella rappresentazione del rapporto contestato avrebbe dovuto condurre ad un apprezzamento pressoché doppio della posta contabile, in assoluto tutt’altro che trascurabile, invece minimizzata alla percezione del ceto creditorio, in maniera che, ancora una volta, stride col dettato dell’art. 173 l.f. ed appare troppo comodo ricondurre a sbadataggine o giustificare con gratuite valutazioni dissenzienti di quelle giudiziali.

In quarto luogo, può essere ricordato, sebbene con importanza decrescente ai fini del decidere, il rapporto con I., che si articola in due aspetti esaminati dal giudice di primo grado: l’entità del credito maturato dall’interlocutore e l’ammanco nelle giacenze di magazzino gestite dall’interlocutore medesimo. Quanto al primo aspetto, I. è stata iscritta nell’elenco dei creditori per euro 284.463,39 mentre era titolare, fin da epoca precedente all’apertura della procedura, di un decreto ingiuntivo non opposto per la somma di euro 306.102,26 lievitata per interessi fino ad euro 329.208,92, talché obiettivamente si registra una ingiustificabile sottovalutazione del 15,7%  pari ad euro 44.754,53: somma non enorme, ma nemmeno trascurabile, che, a voler essere benevoli, denota quanto meno una grave negligenza nella rappresentazione dell’indebitamento verso il soggetto incaricato del magazzinaccio della merce. Viceversa, nessuna responsabilità sembra ascrivibile alla S. per quanto concerne l’ammanco registrato nelle scorte: all’esito dell’inventario eseguito dal commissario giudiziale, è invero emersa una consistente perdita nelle giacenze (precisamente 53.777 capi presunti contro 61.170 che avrebbero dovuto esserci, con una perdita del 13,75%), ma la scoperta, avvenuta soltanto nel corso della procedura, vede la S. nel ruolo della vittima, non in quello dell’artefice, il che non consente di configurare la sparizione di magazzino alla stregua di una sottrazione di attivo imputabile al debitore; al contrario, rispetto ad essa viene a configurarsi una chiara ipotesi di responsabilità contrattuale della controparte per omessa custodia, già stata opportunamente azionata in giudizio dalla procedura.

Una vicenda decisamente più inquietante – e rilevante nella prospettiva dell’art. 173 l.f. – sul fronte della rappresentazione (gonfiata) dall’attivo si lega piuttosto alla cessione ad U. di crediti commerciali per euro 2.044.726,28 che sono rimasti esposti tra la disponibilità attive della procedura. Verificando la posta dei crediti verso clienti, il commissario giudiziale ha chiesto a tutti le banche di documentare i saldi e si è vista trasmettere da U. la copia fotostatica dei contratti di cessione in questione con data certa anteriore all’apertura della procedura conferita da timbro postale. La spiegazione del debitore, secondo cui si tratterebbe di cessioni invalide e comunque inopponibili alla procedura per difetto di notifica ai debitori ceduti, trova benevola, seppur parziale, accoglienza presso il commissario giudiziale (secondo il quale risulterebbe comunque ceduto l’importo, non miserevole, di euro 430.443,35), ma il discorso difensivo sembra a questa Corte tutt’altro che tranquillante. E’ vero, infatti, che l’art. 169 l.f. richiama espressamente l’art 45 l.f. nel predicare le formalità necessarie per rendere opponibili alla massa dei creditori gli atti compiuti dal debitore, d’altra parte non è così pacifica a tal fine l’esigenza della notifica della cessione di credito al debitore ceduto. La giurisprudenza della Suprema Corte insegna che: “il contratto di cessione ha natura consensuale e, perciò, il suo perfezionamento consegue al solo scambio del consenso tra cedente e cessionario, il quale attribuisce a quest’ultimo la veste di creditore esclusivo, unico legittimato a pretendere la prestazione (anche in via esecutiva9, pur se sia mancata la notificazione prevista dall’art. 1264 cod. civ.; questa, a sua volta, è necessaria al sono fine di escludere l’efficacia liberatoria del pagamento eventualmente effettuato in buona fede dal debitore ceduto al cedente anziché al cessionario, nonché, in caso di cessioni diacroniche del medesimo credito, per risolvere il conflitto tra più cessionari, trovando applicazione in tal caso il principio della priorità temporale riconosciuta al primo notificante” (massima tratta da Cass. n. 15364/2011 conformi ex plurimus Cass. n. 13954/2006 e Cass. n. 22280/2010). Noi si disconosce che, nei confronti del fallimento, l’operatività della cessione va incontro ad un problema ulteriore, puntualmente rilevato dalla Corte regolatrice: “al fallimento del cedente possono essere opposte soltanto le cessioni di credito che siano state notificate al debitore ceduto, o siano state dal medesimo accettate, con atto avente data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento, atteso che il disposto dell’art. 2914 primo comma, numero 2 cod. civ. – secondo il quale sono inefficaci, nei confronti del creditore pignorante e dei creditori che intervengono nell’esecuzione, le cessioni di credito che, sebbene anteriori al pignoramento, siano state notificate al debitore o da lui accettate dopo il pignoramento – opera anche in caso di fallimento del creditore cedente” (massima da Cass. n. 5516/2006). Nell’ambito di questo paradigma, resta tuttavia da stabilire se il concordato preventivo comporti un pignoramento generale tale da autorizzare, come avviene nel fallimento l’applicazione dell’art. 2914 comma 1 n.2 c.c., del che seriamente si dubita. In ogni caso, come s’è annunciato in via generale, non si tratta qui di decidere preventivamente l’esito della probabile causa contro U., bensì di tener presente che: 1) il debitore ha esposto tra i crediti posizioni, per importi decisamente rilevanti, che aveva invece ceduto alla banca anteriormente all’apertura del concorso; 2) vi sono parecchie ragioni per temere che la banca possa far valere i crediti di cui si è resa cessionaria a fronte delle anticipazioni erogate; 3) nella più benevola della ipotesi, sarebbero comunque perfezionate ed opponibili alla procedura cessioni di credito per euro 430.433,35 ingannevolmente misconosciute nella rappresentazione dell’attivo concordatario.

Tanto basta ed avanza per respingere il reclamo e confermare la dichiarazione di fallimento. Ogni altra considerazione resta assorbita o superata. Alla soccombenza, segue la condanna del reclamante (in ipotesi di ritorno in bonis, non essendo l’iniziativa processuale imputabile al fallimento, che anzi l’ha subita) al pagamento delle spese del grado, che, tenuto conto delle difficoltà e del valore (indeterminato) della causa, si liquidano a favore di ciascuna delle controparti costituite in giudizio in complessivi euro 4.000,00 (di cui euro 2.000,00 per fase di studio e euro 1.000,00 per fase introduttiva, euro 1.000,00 per la modesta fase istruttoria e nulla per la fase decisoria sostanzialmente inesistente, in assenza di atti scritti conclusionali), oltre al trattamento fiscale e previdenziale di legge.

P.Q.M.

La Corte d’Appello di Firenze, sezione I civile, definitivamente pronunciando nella causa in oggetto, ogni altra domanda ed eccezione disattesa,

RESPINGE

Il reclamo proposto da S. s.p.a. avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Pisa il 13 novembre 2013 n. 80 ed il contestuale decreto aventi ad oggetto la dichiarazione di fallimento ed il diniego di omologa del concordato preventivo e condanna la reclamante al pagamento delle spese processuali del grado, liquidate a favore di W. ed E. in 4.000,00 oltre accessori per ciascuna.

Firenze, 1 aprile 2014

Il Consigliere est.                                                                    Il Presidente

Dott. Edoardo Monti                                              Dott. Pietro Mascagni

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