Cass. 26.06.2014 n. 14552 (sugli atti di frode)

Questa settimana pubblichiamo sul sito dell’osservatorio la sentenza n. 14552 del 26.06.2014, con la quale la I° Sezione Civile della Corte di Cassazione (relatore Dott. Renato Bernabai) è entrata decisamente nel merito della definizione di “atti di frode” rilevanti ai fini della revoca dell’ammissione al Concordato Preventivo ex art. 173 L.F.

Dopo aver infatti, molto opportunamente, precisato che nell’accertamento degli atti di frode ora citati non si può in alcun modo prescindere “dall’accertamento che il comportamento del proponente è stato posto in essere con dolo (Cass. n. 17038 del 2011), consistente anche nella mera consapevolezza di aver taciuto nella proposta circostanze rilevanti ai fini dell’informazione dei creditori (Cass. 10778 del 2014)” e che la condotta del debitore deve “risultare volta ad occultare situazioni di fatto idonee ad influire sul giudizio dei creditori (Cass. n. 13817 del 2011, e Cass. n. 3543 del 2014), non identificandosi con quelle di cui agli artt. 64 e ss”, i Giudici della Suprema Corte enunciano il principio di diritto in base al quale la revoca ex art. 173 L.F. può essere pronunciata “indipendentemente dal voto espresso dai creditori in adunanza e quindi anche nell’ipotesi in cui i creditori medesimi siano stati resi edotti di quell’accertamento”.

Detta previsione, però, non deve intendersi finalizzata alla reintroduzione dell’abrogato “giudizio di meritevolezza del debitore” che, come sottolinea il Collegio, è stato espunto dalla riforma. “La meritevolezza era, infatti, un requisito positivo di carattere generale, che implicava la necessità di un apprezzamento favorevole della pregressa condotta dell’imprenditore (sfortunato, ma onesto), nell’ottica di una procedura prevalentemente concepita come beneficio premiale. Era, quindi, nozione ben più ampia dell’assenza di atti di frode, non solo genericamente pregiudizievoli, ma direttamente finalizzati, in esecuzione di un disegno preordinato, a trarre in inganno i creditori in vista dell’accesso alla procedura concordataria”.

Tutto ciò premesso, personalmente ritengo che la decisione in questione si ponga in contrasto con i numerosi tentativi volti ad affermare una natura squisitamente “negoziale” del concordato preventivo. A questo proposito evidenzio come la Corte, richiamando l’ormai celeberrima sentenza n. 1521/2013 delle Sezioni Unite, rilevi come siano riscontrabili nella disciplina dell’istituto “evidenti manifestazioni di riflessi pubblicistici, suggeriti dall’avvertita proposta, ma comunque esposti agli effetti di una sua non condivisa approvazione, ed attuati mediante la fissazione di una serie di regole processuali inderogabili, finalizzate alla corretta formazione dell’accordo tra debitore e creditori, nonché con il potenziamento dei margini di intervento del giudice in chiave di garanzia

Buona lettura.

 

Simone Giugni

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RODORF Renato - est. Presidente -

Dott. BERNABAI Renato - rel. Consigliere -

Dott. RAGONESI Vittorio - Consigliere -

Dott. DI VIRGIGLIO Rosa Maria  - Consigliere -

Dott. CRISTIANO Magda - Consigliere -

Ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 8233/2013 proposto da:

C.  S.R.L. IN LIQUIDAZIONE (C.F. (OMISSIS)), in persona del Liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata in ______________________, presso l’avvocato ______________________, che rappresenta e difende unitamente all’avvocato ______________________, giusta procura in calce al ricorso;

- ricorrente -

contro

S. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ______________________, presso l’avvocato ______________________, rappresentata e difesa dagli avvocati ______________________, giusta procura in calce al controricorso;

- contro ricorrente -

contro

FALLIMENTO C. S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, T. S.N.C.;

- intimati -

Avverso la sentenza n. 228/2013 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 21/01/2013;

udita lan relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/02/2014 dal Consigliere Dott. RENATO BERNABEI;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato ______________________che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito, per la controricorrente, l’Avvocato ______________________che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 Fatto

ESPOSIZIONE DEL FATTO

Con sentenza del 19 giugno 2012 il Tribunale di Busto Arsizio dichiarò il fallimento della C. s.r.l., su istanza della S. s.p.a., dopo avere rigettato con decreto coevo una domanda di omologazione di concordato preventivo presentata dalla medesima C.

Il successivo reclamo della fallita fu respinto dalla Corte d’appello di Milano con sentenza del 21 gennaio 2013.

La corte osservò che solo dalla lettura della relazione del commissario giudiziale L. Fall., ex art. 172, i creditori erano venuti a conoscenza del fatto che la società debitrice, già in situazione finanziaria critica, aveva distribuito utili, in forza della delibera assembleare del 6 ottobre 2010, per il rilevante ammontare di Euro 430.000,00; che, inoltre, la società aveva definito un contenzioso in corso, avente ad oggetto un appalto da essa eseguito, mediante una transazione di contenuto pregiudizievole, con cui era stata riconosciuta al committente L. s.p.a. la somma di Euro 1.886.000,00 per lavori non eseguiti ed una penale per il ritardo, laddove, in considerazione delle proroghe ottenute e dei difetti contestati ma non accertati, sarebbe stato solo giustificato un minore addebito di Euro 300.000; che, per di più, opere extra contratto per il valore di Euro 3.586.000,00, oltre all’Iva, erano state ivi compensate con il ben più modesto importo di Euro 786.000,00; che neppure era stata indicata, nella proposta di concordato preventivo, l’esistenza di ulteriori crediti vantati da due società per complessivi Euro 500.000,00, a nulla rilevando che tali crediti fossero contestati e non accertati giudizialmente.

In tali comportamenti la corte territoriale, anche alla luce degli stretti rapporti della C. con la committente L. e della stipulazione dell’anzidetta transazione in data pressochè contemporanea alla presentazione del ricorso per l’ammissione alla procedura di concordato, ravvisò atti fraudolenti idonei a determinare la revoca dell’ammissione al concordato preventivo in base alla previsione della L. Fall., citato art. 173.

Avverso questa sentenza, notificata il 13 febbraio 2013, la C. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.

La S. ha resistito con controricorso. La curatela del fallimento non ha svolto invece attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. La ricorrente deduce anzitutto la violazione della L. Fall., art. 173, contestando che possa ritenersi in frode ai creditori un accordo transattivo da esse stipulato con la controparte a definizione di un complesso contenzioso che ai creditori era stato reso noto.

Nega poi rilevanza, sempre ai fini dell’applicazione del citato art. 173, alla mancata menzione di due crediti, contestati e non ancora giudizialmente accertati. Nucleo centrale dell’iter argomentativo a sostegno della censura è l’affermata natura contrattuale del concordato preventivo, espressione di un sostegno della censura è l’affermata natura contrattuale del concordato preventivo, espressione di un accordo riconducibile all’autonomia negoziale e, come tale, insindacabile dal giudice, una volta accertato che i creditori siano stati informati della situazione patrimoniale attuale della loro debitrice.

All’approvazione dei creditori non si potrebbe sovrapporre alcun controllo di tipo dirigistico operato dal tribunale: neppure in presenza di atti distrattivi del patrimonio, se commessi in data anteriore all’apertura della procedura, allorchè i creditori, prima della liber5a espressione del loro voto in assemblea, ne abbiano comunque acquisito conoscenza – come nella specie – per mezzo della relazione del commissario giudiziale.

La ricorrente contesta poi – anche sotto il profilo della carenza di motivazione – la natura fraudolenta degli atti sottoposti a scrutinio della corte milanese, negando che la distribuzione degli utili, l’accordo transattivo con la committente L. s.p.a. e l’omessa inclusione nella situazione patrimoniale di crediti contestati possano iscriversi nel novero degli “altri atti di frode” contemplati nella previsione di chiusura della prima parte del citato art 173, comma 1.

2. Il ricorso, nella parte in cui denuncia violazioni di legge, non appare meritevole di accoglimento.

Dalla premessa sistematica che vorrebbe assegnare natura contrattuale al concordato preventivo riformato con il D. Lgs. 9 gennaio 2006, n.5, e successive modifiche, non  è dato ricavare la conclusione dell’irrilevanza della verifica officiosa di eventuali atti fraudolenti, se commessi anteriormente all’ammissione alla procedura, volta che i creditori ne siano stati comunque informati.

La disputa sulla natura dell’istituto del concordato preventivo è antica, ma già prima della recente riforma cui sopra s’è fatto cenno, questa corte aveva avuto modo di puntualizzare che, ove pure si fosse voluto convenire sul fondamento eminentemente negoziale dell’istituto, accostando la cessio bonorum concordataria alla figura contrattuale disegnata dall’art. 1977 c.c., si sarebbe nondimeno dovuto tenere conto che esso non si risolve in un mero atto di autonomia negoziale delle parti, ma si realizza in un contesto proceduralizzato ed in un ambito di controlli pubblici affidati al giudice per garantire il raggiungimento delle finalità perseguite dal legislatore (si veda, in  motivazione, Sez. un. N. 19506 del 2008).

Anche dopo l’entrata in vigore della riforma le sezioni unite di questa corte hanno ribadito, nella sentenza n. 1521 del 2013, che i connotati di natura negoziale riscontrabili nella disciplina dell’istituto non escludono “evidenti manifestazioni di riflessi pubblicistici, suggeriti dall’avvertita proposta, ma comunque esposti agli effetti di una sua non condivisa approvazione , ed attuati mediante la fissazione di una serie di regole processuali inderogabili, finalizzate alla corretta formazione dell’accordo tra debitore e creditori, nonché con il potenziamento dei margini di intervento del giudice in chiave di garanzia”.

Non è dunque ad impostazioni dogmatiche di carattere generale che occorre aver riguardo, bensì alla concreta disciplina normativa di volta in volta applicabile; ed è innegabile che la revoca dell’ammissione al concordato, per avere il debitore occultato o dissimulato parte dell’attivo, dolosamente omesso di denunciare uno o più crediti, esposto passività insussistenti o commesso altri atti di frode – revoca contemplata dalla L. Fall., art. 173, in modo sostanzialmente invariato rispetto al regime anteriore alla riforma – già per il carattere ufficioso da cui è connotata, non  appare riducibile ad una dialettica di tipo meramente negoziale, ma pienamente invece s’iscrive nel novero degli interventi del giudice in chiave di garanzia cui sopra s’è fatto cenno.

Con riferimento agli “atti in frode” contemplati dal citato art. 173, questa corte ha già avuto occasione di osservare come non si possa prescindere dall’accertamento che il comportamento del proponente è stato posto in essere con dolo (Cass. n. 17038 del 2011), consistente anche nella mera consapevolezza di aver taciuto nella proposta circostanze rilevanti ai fini dell’informazione dei creditori (Cass. 10778 del 2014); e come la condotta del debitore debba appunto risultare volta ad occultare situazioni di fatto idonee ad influire sul giudizio dei creditori (Cass. n. 13817 del 2011, e Cass. n. 3543 del 2014), non identificandosi con quelle di cui agli artt. 64 e ss.

della medesima delle fallimentare, ma occorrendo che esse siano state inizialmente ignorate dagli organi della procedura e dai creditori e successivamente accertate dal commissario giudiziale (Cass. n. 23387 del 2013). Si è anche aggiunto che la disposizione in esame non esaurisce il suo contenuto precettivo nel richiamo al fatto scoperto perché ignoto nella sua materialità, ma ben può ricomprendere il fatto non adeguatamente e compitamente esposto in sede di proposta di concordato ed allegati, e che quindi può dirsi accertato dal commissario, in quanto individuato nella sua completezza e rilevanza ai fini della corretta informazione dei creditori, solo successivamente (Cass. n. 9050 del 2014).

Ferme tali premesse, ed anche a prescindere dall’inquadramento – prospettato nell’impugnata sentenza – dell’istituto in esame nella figura generale dell’abuso del diritto (figura intorno alla cui configurabilità la disputa è peraltro ancora assai viva), occorre puntualizzare che la fraudolenza degli atti posti in essere dal debitore, se implica, come già detto, una loro potenzialità decettiva nei riguardi dei creditori, non per questo assume rilievo, ai fini della revoca dell’ammissione al concordato, solo ove l’inganno dei creditori si sia effettivamente realizzato e si possa quindi dimostrare che, in concreto, i creditori medesimi hanno espresso il loro voto in base ad una falsa rappresentazione della realtà. Quel che rileva è il comportamento fraudolento del debitore, non l’effettiva consumazione della frode.

Se così non fosse, se cioè l’accertamento degli atti fraudolenti ad opera del commissario potesse essere superato dal voto dei creditori, preventivamente resi edotti della frode e disposti ugualmente ad approvare la proposta concordataria, non si capirebbe perché il legislatore ricollega invece immediatamente alla scoperta degli atti in frode il potere-dovere del giudice di revocare l’ammissione al concordato. E ciò senza la necessità di alcuna presa di posizione sul punto dei creditori, ormai resi edotti della realtà della situazione venuta alla luce, e senza dare spazio alcuno a possibili successive loro valutazioni in proposito (come, sul piano sistematico, risulta oggi confermato anche dall’applicabilità dell’istituto della revoca per atti fraudolenti sin dalla fase ancora embrionale della procedura, in caso di domanda di concordato con riserva di successiva presentazione della proposta e del piano, a norma della L. Fall., art. 161, comma 6, novellato dal D.L. n. 69 del 2013, art 82, comma 1, lett. b, convertito con L. n. 98 del 2013).

In tali situazioni, ove fosse fondata la tesi qui propugnata dalla ricorrente, sarebbe stato logico che il legislatore avesse previsto ugualmente la possibilità di dar corso alla procedura, almeno sino all’adunanza dei creditori, così da consentire a costoro di esprimere il loro voto alla luce dei fatti scoperti ed illustrati dal commissario giudiziale.

Poiché non è così, deve di necessità concludersi che il legislatore ha inteso sbarrare la via del concordato al debitore il quale abbia posto dolosamente in essere gli atti contemplati dal citato art. 173, individuando in essi una ragione di radicale non affidabilità del debitore medesimo e quindi, nel loro accertamento, un ostacolo obiettivo ed insuperabile allo svolgimento ulteriore della procedura.

Donde l’enunciazione del seguente principio di diritto:

l’accertamento, ad opera del commissario giudiziale, di atti di occultamento o di dissimulazione dell’attivo, della dolosa omissione della denuncia di uno o più crediti, dell’esposizione di passività insussistenti o della commissione di altri atti di frode da parte del debitore determina la revoca dell’ammissione al concordato, a norma della L. Fall., art. 173, indipendentemente dal voto espresso dai creditori in adunanza e quindi anche nell’ipotesi in cui i creditori medesimi siano stati resi edotti di quell’accertamento.

Giova solo aggiungere che il principio di diritto ora enunciato non vale, certo, a reintrodurre il giudizio di meritevolezza, che la riformata legge fallimentare ha espunto dal novero dei presupposti per l’ammissione al concordato preventivo. La meritevolezza era, infatti, un requisito positivo di carattere generale, che implicava la necessità di un apprezzamento favorevole della pregressa condotta dell’imprenditore (sfortunato, ma onesto), nell’ottica di una procedura prevalentemente concepita come beneficio premiale. Era, quindi, nozione ben più ampia dell’assenza di atti di frode, non solo genericamente pregiudizievoli, ma direttamente finalizzati, in esecuzione di un disegno preordinato, a trarre in inganno i creditori in vista dell’accesso alla procedura concordataria.

Nè al riguardo vale obiettare che lo strumento repressivo di condotte illecite, in subiecta materia, sarebbe da individuare non già  nel citato art. 173, bensì nella norma incriminatrice di cui al successivo art. 236: perché è perfettamente ammissibile, ed anzi normale, il concorso di una sanzione penale con altra di diversa natura, volta ad impedire la validità e l’efficacia di atti viziati da antigiuridicità speciale.

3. Il ricorso non è accoglibile neppure sotto il profilo dei pretesi vizi di motivazione in cui sarebbe incorsa l’impugnata sentenza nell’accertamento del carattere illecito delle operazioni richiamate.

I fatti valorizzati ai fini della decisione sono stati soprattutto, in primo luogo, il silenzio mantenuto, nella proposta di concordato, su una rilevante distribuzione di utili, avvenuta circa un anno prima della presentazione del ricorso, e su una transazione stipulata con la committente L., valutata dalla corte territoriale estremamente vantaggiosa per la debitrice (transazione pressoché coeva alla deliberazione di richiedere l’ammissione alla procedura concordataria), in secondo luogo, la mancata inclusione, nella relazione sulla situazione patrimoniale, di crediti vantati da due società terze per complessivi Euro 500.000 circa.

Tale comportamento reticente è stato giudicato ostativo al consenso informato del ceto creditorio – resone edotto solo tre giorni prima dell’adunanza, grazie alla relazione del commissario giudiziale – ed oggettivamente sanzionabile con la revoca dell’ammissione al concordato.

Di tutte queste operazioni, la corte d’appello ha congruamente motivato la natura fraudolente. Sia della distribuzione di utili per oltre Euro 400.000,00, depauperativa del patrimonio della società, quando già incombeva lo stato di crisi economico-finanziaria; sia, ancor più, dell’accordo transattivo, che riconosceva alla committente la somma di Euro 1.000.886, a titolo di penale per danni:

somma che tanto il tribunale quanto la corte d’appello, con apprezzamento insindacabile in questa sede, hanno ritenuta ingiustificata in relazione alle opere non eseguite ed ai difetti contestati. A questo riguardo, un ulteriore elemento, pure apprezzato in motivazione, è stato la falcidia drastica del compenso maturato per l’esecuzione di lavori extracontratto (da Euro 3.586.000,00, oltre ad Iva, ad Euro 786.000,00): con  una differenza in danno all’appaltatrice di Euro 2.800.000,00, ritenuta ingiustificata.

Per quanto riguarda l’elemento psicologico del dolo nelle predette operazioni, esso è stato presuntivamente desunto non solo dalla loro omessa menzione nel ricorso per concordato preventivo – nonostante la rilevante incidenza economica – ma anche dalla genesi coeva della transazione e della predisposizione della domanda di concordato preventivo: tanto più sintomatica, alla luce dei rapporti stretti, correnti tra la società committente e l’appaltatrice C. s.r.l..

Un articolato iter argomentativo, dunque, analitico ed immune da vizi logici, a sostegno dell’accertamento di un disegno volto a pregiudicare il ceto creditorio e non disvelato ab initio.

Ancor più decisivo, ai fini che qui rilevano, è l’accertamento compiuto dalla corte di merito in ordine alla mancata inclusione dei due crediti cui s’è già fatto cenno: circostanza che configura proprio l’ipotesi tipizzata dalla L. Fall., art. 173, con riferimento alla quale non è affatto esimente la contestazione stragiudiziale in punto di an e quantum debeatur, che avrebbe semmai imposto un supplemento d’informazione sul punto ma non autorizzato certo a tacere l’esistenza di una posta di tale entità.

Poiché, dunque, l’accertamento del nesso funzionale e dell’elemento psicologico che deve legare gli atti pregressi in frode dei creditori con la proposta del concordato preventivo spetta al giudice di merito, restando soggetto a sindacato di legittimità sotto il profilo del vizio di motivazione, e poiché, come s’è detto, nessun vizio di motivazione è riscontrabile nel caso in esame, il ricorso va respinto.

4. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo, sulla base del valore della causa, del numero e della complessità delle questioni trattate.

 P.Q.M.

La corte rigetta e condanna la società ricorrente alla rifusione delle spese processuali, liquidate in complessivi Euro 8200,00 di cui Euro 8000,00 per compenso, oltre agli accessori di legge, dando atto, ai sensi del D.P.R. n.115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 12 febbraio 2014.

Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2014

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