Cass. SS.UU 20.03.2015 n. 5685 (sul privilegio artigiano)

Questa settimana pubblichiamo sul sito dell’osservatorio la Sentenza n. 5685 resa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in data 20.03.2015 sul sentito tema dell’ammissione al privilegio artigiano in sede di verifica dello stato passivo.

Il provvedimento, pur molto interessante, a mio avviso rende conto delle incertezze causate dall’introduzione dell’art. 36 del D.L. 09.02.2012 n. 5, che ha introdotto (come è noto) il principio secondo il quale la natura artigiana dell’impresa va valutata in base alla legislazione speciale di riferimento (nella specie la legge quadro n. 443/85).

E’ vero che la fattispecie portata all’attenzione della Suprema Corte è antecedente alla modifica legislativa (della quale non si è potuto quindi tener conto) ma è altrettanto evidente che, così resa, la motivazione lascia aperto più di un interrogativo sui criteri da adottare nel prossimo futuro.

Non si può pertanto che auspicare un intervento chiarificatore.

Più decise sono le Sezioni Unite nel negare, invece, ogni rilevanza (ai fini del riconoscimento del privilegio artigiano) alle soglie di fallibilità di cui all’art. 1 L.F., norma che era stata invece invocata in primo grado dal Tribunale di Verona.

Buona lettura.

Simone Giugni

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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE

Svolgimento del processo

 

La ditta B C presentava insinuazione al passivo del fallimento della ditta E Costruzioni di A in base ad un decreto ingiuntivo ottenuto per diverse fatture emesse a fronte di lavori effettuati negli anni 2000/2007 a favore della società fallita.

 

Nell’istanza dell’insinuazione della ditta, odierna ricorrente, chiedeva il risarcimento del privilegio sul proprio credito complessivo, pari ad 362.802,79, essendo ditta artigiana e pertanto privilegiata ai sensi dell’art2751 bis n°5 C.C.

 

Veniva prodotta documentazione relativa al credito (fatture ed il decreto ingiuntivo esecutivo e definitivo) ed alla natura artigiana dell’impresa (iscrizione speciale tenuto presso la CCAA di Verona, dichiarazioni di redditi dai quali emergeva, tra l’altro, l’assenza di qualunque personale dipendente).

 

Il Tribunale ammetteva il credito nell’importo richiesto, ma ne escludeva la natura privilegiata.

 

Veniva dalla ditta ricorrente proposta opposizione allo stato passivo, insistendo per il riconoscimento del privilegio, rimarcando la preponderanza dell’apporto di lavoro personale del titolare sig. B rispetto ai modesti apporti di capitale impiegati nell’azienda.

 

La Curatela fallimentare non si costituiva nel procedimento di opposizione, rimanendo contumace.

 

Il Tribunale di Verona, con decreto in data 17.4.2012 confermava il non riconoscimento del privilegio artigiano,

motivata il mancato riconoscimento del richiesto privilegio sulla base del fatta che a ricorrente avesse superato, negli anni di imposta 2007 e 2009 il limite previsto dall’art. 1, comma 2, lett. b) della Legge Fallimentare avendo avuto un giro d’affari superiore sia pure di poco ai duecentomila euro.

Avverso il detto provvedimento ricorre per cassazione la T. B sulla base di due motivi, illustrati con memoria, cui resiste la curatela fallimentare.

La causa è stata assegnaLa  a queste Sezioni Unite in accoglimento dell’istanza del ricorrente.

Motivi della decisione

Con il primo motivi di ricorso la ditta ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2751 bis n° 5 c.c., così come novellato dal d.l. 9.2.2012 n° 5, convertito con legge 35/2012.

 

 

In particolare, la ricorrente contesta il provvedimento impugnato laddove, al fine di accertare la natura di impresa artigiana, ha fatto applicazione dei criteri di cui all’art della legge fallimentare ed all’art. 2083 c.c

Secondo la ricorrente, invece, la natura artigiana dell’impresa andrebbe valutata esclusivamente in base alla legislazione speciale in materia contenuta nella legge quadro n. 443/85.

 

Con il secondo motivo contesta l’assunto della sentenza secondo cui il solo fatto che l’impresa avesse superato i limiti di fatturato di cui all’art. 1 l.f. la rendeva fallibile onde per tale fatto non poteva considerarsi artigiana.

 

Il primo motivo appare infondato e per certi versi inammissibile.

 

Va innanzitutto esaminata la questione della retroattività della nuova versione dell’art. 2751 bis n. 5 c.c. a seguito della modifica normativa operata dall’art. 36 del D.L. 9 febbraio 2012, n. 5, entrata in vigore il 10.2.12, dovendosi rilevare che la costante giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente affermato che la nuova norma conseguente alla modifica citata, laddove accorda il privilegio ai crediti dell’impresa artigiana “definita ai sensi delle disposizioni legislative vigenti”, non ha natura interpretativa e valore retroattivo, facendo difetto sia l’espressa previsione nel senso dell’interpretazione autentica, sia i presupposti di incertezza applicativa che ne avrebbero giustificato l’adozione. Pertanto, riguardo al periodo anteriore all’entrata in vigore della novella, resta fermo che l’iscrizione all’albo delle imprese artigiane ex art. 5 della legge n. 443 del 1985 non spiega alcuna influenza sul riconoscimento del privilegio, dovendosi ricavare la nozione di Impresa Artigiana dai criteri generali dell’art. 2083 cod civ (Cass 11154/12; Cass 11024113; Cass 18968/13, Cass 1166714).

Nel caso di specie va rilevato che lo stato passivo della E 2000 Costruzioni s.n.c. è stato depositato in cancelleria il 28 ottobre 2011, mentre il suo fallimento è stato dichiarato con sentenza del tribunale di Verona del 28 settembre 2010, prima dunque della citata modifica normativa con la conseguenza che deve trovare applicazione l’art. 2751 bis primo comma n. 5 c.c. antecedente alla modifica più volta citata

In tal senso si rivela erroneo l’assunto della società ricorrente secondo cui il tribunale di Verona avrebbe dovuto applicare la novella del 2012 in quanto entrata in vigore quattro mesi prima della emanazione del decreto impugnato.

 

Va infatti rilevato che le norme sui privilegi sono disposizioni di diritto civile che attengono alla qualità di alcuni crediti, consistente nella loro prelazione rispetto ad altri, per cui trova applicazione, salvo espressa deroga normativa, che nel caso di specie non sussiste, il principio generale di cui all’art. 11 delle preleggi, secondo cui le leggi non sono retroattive. Ne consegue che la modifica legislativa, che abbia introdotto un nuovo privilegio o abbia introdotto modifiche ad uno già esistente, si applica solo se il credito sia sorto nello stesso giorno o in un giorno successivo rispetto al momento in cui la legge entra in vigore e pertanto la gradazione dei crediti si individua avendo riguardo al momento in cui il credito sorge e non quando viene fatto valere.

 

In tale senso, è appena il caso di soggiungere, che, non trattandosi nel caso di specie di norme processuali, le stesse non sono suscettibili di applicazione come ius superveniens ai giudizi in corso.

 

Ciò posto, dovendosi dunque applicare la norma dell’art. 2751 –bis, primo comma, n. 5, cod. civ., secondo il vecchio testo antecedente relativa nozione alla luce dei criteri fissati, in via generale, dall’art. 2083 cod. civ. (ex plurimus Cass 7366/98 Cass 19508/05; Cass 11154/12).

Tale interpretazione ha avuto anche l’avallo della Corte Costituzionale che ha rilevato che “le norma impugnate vadano interpretate nel senso di riconoscere che l’iscrizione all’albo delle imprese artigiane, anche nell’ambito delle Regioni a statuto speciale o Province autonome costituisce il presupposto per fruire delle agevolazioni previste dalla legge-quadro o da altre disposizioni, ma non vale a far sorgere una presunzione assoluta circa la qualifica artigiana dell’impresa stessa ai fini del riconoscimento del privilegio generale sui mobili previsto dal codice civile; al contrario, è consentito al giudice di sindacare la reale consistenza dell’impresa creditrice,…. (omissis) (C. Cost. 24 luglio 1996 n. 307).

 

Venendo all’esame del secondo motivo del ricorso, lo stesso appare fondato.

Va infatti rammentato che questa Corte di cassazione ha chiarito che l’art. 1, secondo comma, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nel testo modificato dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, che stabilisce, ai fini della dichiarazione di fallimento, la necessità del superamento di alcuni parametri dimensionali, esclude la possibilità di ricorrere al criterio sancito nella norma sostanziale contenuta nell’art. 2083 cod. civ., che ormai ai fini della fallibilità non spiega alcuna rilevanza.

 

Il regime concorsuale riformato ha infatti tratteggiato la figura dell’imprenditore fallibile affidandola in via esclusiva a parametri soggettivi di tipo qualitativo, i quali prescindono del tutto da quello, canonizzato nel regime civilistico, della prevalenza del lavoro personale rispetto all’organizzazione aziendale fondata sul capitale e sull’altrui lavoro. (Cass 13086/10, Cass 23052/10).

Dunque il collegamento effettuato nel decreto tra la condizione di piccolo imprenditore ed i criterio di cui all’art. 1 l.f. appare del tutto improprio non sussistendo
più alcun rapporto tra la condizione di piccolo imprenditore e la condizione di fallibilità.

Da ciò, a maggior ragione, si deve escludere ogni rapporto tra le disposizioni dell’art 1 l.f. in tema di requisiti di fallibilità con la tutt’affatto diversa questione della sussistenza della natura di impresa artigiana, desumibile in base alla normativa ratione temporis applicabile di cui si è dianzi detto, in regione dei criteri stabiliti per l’individuazione del piccolo imprenditore.

Ciò posto, si osserva che il decreto ha escluso la natura artigiana della impresa sulla base del suo volume di affari di oltre 200 mila euro per l’anno 2007 e per quello successivo.

A tal proposito l’art. 2083 c.c. definisce piccolo imprenditore l’artigiano che esercita un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia.

 

L’artigiano peraltro va considerato un normale imprenditore commerciale, come tale sottoposto alle procedure concorsuali, allorché abbia organizzato la sua attività in guisa da costituire una base di intermediazione speculativa e da far assumere al suo guadagno i connotati del profitto, avendo in tal modo organizzato una vera e propria struttura economica a carattere industriale con un’autonoma capacità produttiva sicché l’opera di esso titolare non sia più né esistenziale né principale (cfr. Cass. 22 dicembre 200o, n. 16157, Cass 1287/05)

In tale ambito ai fini di accertare la ricorrenza della qualità di piccolo imprenditore occorre valutare alcuni criteri tra cui l’attività svolta, il capitale impiegato, l’entità dell’impresa, il numero dei lavoratori, l’entità e qualità della produzione, i finanziamenti ottenuti e tutti quegli elementi atti a verificare se l’attività venga svolta con la prevalenza del lavoro dell’imprenditore e della propria famiglia.

 

La sentenza impugnata non si è attenuta ai criteri dinnanzi indicati. La stessa, infatti, si è limitata ad affermare che la natura artigiana della impresa doveva escludersi sulla base del suo volume di affari per l’anno 2007 e per quello successivo di oltre 200 mila euro. Premesso che, ai sensi dell’art. 20 del DPR 633/72, in materia di IVA, che è l’unica norma che da una definizione del volume d’affari, viene definito tale “l’ammontare complessivo delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizio dallo stesso effettuate, registrate o soggette a registrazione con riferimento ad un anno solare” è agevole osservare che tale criterio di per sé  non solo non appare sufficiente per riscontrare od escludere la natura artigiana di un impresa.

 

Quest’ultima va individuata, ai sensi dell’art. 2083 c.c., applicabile come detto ratione temporis, nella prevalenza del lavoro del titolare dell’impresa e della sua famiglia rispetto al capitale ed all’altrui lavoro.

Tale accertamento necessita necessariamente il riferimento ad altri parametri che nel loro complesso possono portare ad una adeguata valutazione.

In primo luogo sarebbe necessario accertare l’incidenza del lavoro del titolare dell’impresa ed eventualmente dei suoi familiari nello svolgimento dell’attività imprenditoriale in relazione ai dipendenti utilizzati.

In tal senso occorrerebbe conoscere quanti questi ultimi siano. E’ infatti evidente che un imprenditore che abbia alle sue dipendenze un grande numero di lavoratori non potrebbe comunque essere considerato artigiano poiché un consistente apporto esterno di forza lavoro comporterebbe l’esistenza di una organizzazione dell’impresa di dimensioni tali che farebbe escludere la prevalenza della attività lavorativa del solo titolare.

In secondo luogo, sarebbe necessario accertare il capitale investito nell’impresa sia in termini di strutture e macchinari che di materie prime poiché anche in tal caso un capitale di rilevante entità porterebbe ad escludere una prevalenza del lavoro umano del solo titolare dell’impresa.

Nessuno dei sovraindicati elementi si rinviene nel provvedimento impugnato.

In assenza di tali dati di riferimento, il solo elemento dell’ammontare del volume d’affari si presenta di per sé equivoco e, come tale, inidoneo ad accertare di per sé solo la natura artigiana o meno dell’impresa.

In primo luogo nell’ambito del volume d’affari occorrerebbe  valutare il costo delle materie prime e del materiale utilizzato per produrre i beni.

Come correttamente osservato dal ricorrente, ad esempio, è evidente che un artigiano orafo, che per creare i propri gioielli utilizzi metalli e pietre preziose, avrà un volume d’affari di un certo rilievo dovuto al valore intrinseco degli oggetti creati e successivamente venduti, derivate dalle materie prime utilizzate anche se abbia svolto la propria attività di persona e senza dipendenti.

Il costo del materiale utilizzato e successivamente ceduto ai clienti sarebbe indispensabile inoltre per valutare il guadagno effettivo dell’imprenditore che ovviamente a fronte di costi elevati di acquisto risulterebbe solo una parte limitata del volume d’affari non assurgendo così al livello di un vero e proprio profitto d’impresa.

Nel caso di specie non si rinviene nel provvedimento impugnato neppure un’analisi di questo tipo.

In conclusione dunque la motivazione fornita dal Tribunale non appare conforme ai criteri stabiliti dall’art. 2083 c.c., onde il motivo va accolto.

Il decreto impugnato va di conseguenza cassato in relazione al motivo accolto con rinvio al Tribunale di Verona, in diversa composizione che si atterrà nel decidere al principio di diritto dianzi enunciato e che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di cassazione.

 

PQM

Accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese al Tribunale di Verona in diversa composizione.

ROMA 10.3.15

Depositato in Cancelleria oggi 20 MAR 2015

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