Trib. Rovigo 03.02.2016 (sulla risoluzione del concordato preventivo)
Questa settimana pubblichiamo sul sito dell’osservatorio la sentenza resa dal Tribunale di Rovigo in data 03.02.2016.
Nella stessa il Collegio ha accolto la domanda di risoluzione del concordato preventivo avanzata da un creditore della procedura, dichiarando altresì il fallimento del debitore, il tutto approfondendo il tema del rapporto tra concordato “liquidatorio” e soddisfazione dei creditori chirografari.
Nelle sue motivazioni, il Tribunale dà preliminarmente atto dell’esistenza di due diverse tesi giurisprudenziali:
- quella che ritiene che la mancata soddisfazione dei creditori chirografari, rivelatasi in sede esecutiva, determini il venir meno della causa concreta del concordato, determinandone la risoluzione;
- quella che ritiene invece che, purché i creditori siano stati puntualmente informati dei presumibili esiti del concordato da parte del Commissario, non possa addivenirsi alla risoluzione del concordato stesso allorché dalla liquidazione del patrimonio non derivino le utilità previste per i creditori.
Per quanto riguarda in particolare il concordato con cessione dei beni, il Collegio osserva come tendenzialmente – non essendo garantita una percentuale minima ai creditori – il mancato raggiungimento della soddisfazione prevista non può costituire indice dell’inadempimento del debitore.
Ciò naturalmente a patto che la fase di liquidazione sia stata gestita conformemente al piano di concordato e siano state fornite al ceto creditorio tutte le informazioni necessarie all’espressione di un consenso informato.
Caso particolare, invece, è quello in cui ai creditori chirografari non sia possibile pagare alcunché.
Il Tribunale osserva, infatti, che “il concordato preventivo è ontologicamente funzionalizzato alla soddisfazione dei creditori, sicché deve affermarsi che qualunque sia la proposta concordataria, implicitamente vi è l’obbligo di soddisfare i creditori chirografari in qualche misura”.
“Se, infatti, questa obbligazione non fosse implicitamente contenuta nella proposta, il Tribunale dovrebbe dichiarare la inammissibilità della stessa, in virtù di quanto statuito dalla Suprema Corte a Sezioni Unite (sentenza 23 gennaio 2013, n. 1521)”.
Pertanto, laddove dalle previsioni del liquidatore emerga che in nessun modo potrà essere soddisfatta la massa creditoria chirografaria, ancorché non sia ultimata la fase di esecuzione del concordato potrà risolversi il medesimo per grave inadempimento del debitore.
Interessante infine è la dichiarata impossibilità di invocare, nella fase di esecuzione del piano, la revoca ex art. 173 L.F., “data la tipicità degli strumenti di caducazione del concordato previsti per la fase successiva alla omologazione e il tenore letterale della disposizione richiamata destinata alla revoca della ammissione, ontologicamente elisa dalla successiva omologazione”.
Buona lettura.
Simone Giugni
*******
IL TRIBUNALE DI ROVIGO
Riunito in camera di consiglio nelle persone dei sigg. magistrati:
Dr. Marcello D’Amico, Presidente
Dr. Mauro Martinelli, Giudice relatore ed estensore
Dr.ssa Valentina Vecchietti, Giudice
Nella causa rubricata subn. 10/2012 R.G. Conc. Prev., ha pronunciato la seguente
SENTENZA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La con ricorso depositato il 17 novembre 2015, ha chiesto la risoluzione del concordato omologato presentato dalla ai sensi dell’art. 186 l.f., deducendo il grave inadempimento, posto che, sulla base della relazione del liquidatore giudiziale dr. le somme ricavabili dalla cessione dei beni non sarebbero sufficienti a pagare integralmente i creditori ipotecari e in alcuna misura i creditori chirografari.
La ricorrente ha altresì evidenziato come dalla predetta relazione emerga la mancata consegna da parte dell’amministratore della di 2572 bis di proprietà della circostanza che integrerebbe i presupposti di applicazione dell’art. 173 l.f.
Il Collegio ha instaurato il contraddittorio tra le parti, riservandosi la decisione.
Il Commissario giudiziale ha depositato, in data 4 gennaio 2016, il proprio parere; la resistente non si è costituita.
La modifica delle disposizioni normative disciplinanti il concordato, avvenuto con la novella del 2012, ha indiscutibilmente spostato l’assetto e la prospettiva dell’istituto, permeandolo di natura para-privatistica, confinando correlativamente i poteri d’imperio e di controllo del Tribunale.
L’assimilazione, per così dire, imperfetta alla fattispecie contrattuale, ha minato i raggiunti equilibri giuridici, lasciando profondi dubbi e, conseguentemente, divergenti applicazioni giurisprudenziali, mentre il faro nomofilachico delle Sezioni Unite ha proiettato una luce ambivalente, finendo per consegnare argomentazioni giuridiche egualmente forti alle divergenti posizioni delle autorità giudicanti.
Il rilievo assunto dalla causa concreta e la costruzione dicotomica tra fattibilità giuridica e fattibilità economica – non prevista normativamente – ha suggerito ad alcuni Tribunali un obbligo di valutazione penetrante della proposta concordataria, mentre altri hanno, di fatto, esautorato il Collegio da valutazioni che non rientrassero nella stretta legittimità normativa del piano.
In questo contesto è evidente che la seconda prospettiva – in verità preponderante nella giurisprudenza di merito – ha consentito la omologazione di concordati preventivi che, sebbene approvati a maggioranza (quantunque formatasi pressoché sempre solo grazie al c.d. meccanismo del silenzio assenso), non avevano reali possibilità di soddisfare i creditori nei tempi e nelle percentuali prospettate.
La logica della informazione – quale presupposto della libera scelta consapevole e autoresponsabilizzazione del creditore votante – ha, dunque, consentito – come nel caso esaminato – che proposte concordatarie fondate su valutazioni economiche di parte, apertamente sconfessate dalle valutazioni operate dal Commissario giudiziale, coadiuvato da propri ausiliari, fossero omologate dal Collegio.
In queste ipotesi la realtà della fase esecutiva collima con la prospettiva giudiziale e si scontra con quella contenuta nella proposta concordataria, lasciando spazio al rimedio risolutivo di cui all’art. 186 l.f.
La assimilazione contrattuale citata si manifesta anche nella previsione normativa della possibile risoluzione del concordato nella ipotesi di grave inadempimento; l’imperfezione è immediatamente riscontrata dal mancato richiamo alla necessità di un’imputazione colposa dell’inadempimento (sebbene richiesta da parte della dottrina e della giurisprudenza minoritaria).
Occorre, dunque, indagare quando il creditore possa invocare la risoluzione per inadempimento della proposta concordataria liquidatoria (resta estranea all’indagine giudiziale del provvedimento ogni valutazione connessa al concordato con continuità aziendale).
Parte della dottrina e della giurisprudenza (cfr. Trib. Di Modena 11 giugno 2014, n. 108 in ilfall 5/2015) ritiene che la mancata soddisfazione dei creditori chirografari rivelatasi in sede esecutiva determini il venir meno della causa concreta del concordato, legittimandone la risoluzione.
Altra parte della dottrina e della giurisprudenza (cfr. Corte di Appello di Genova, 23 ottobre 2014 in il fall. 11/2015; Trib. Di Vicenza 7 maggio 2012 in www.ilcaso.it) ritiene che, purché i creditori siano stati puntualmente informati dei presumibili esiti del concordato da parte del Commissario, non possa addivenirsi ad una risoluzione del concordato allorché dalla liquidazione del patrimonio non derivino le utilità previste per i creditori.
Questa seconda tesi, tuttavia, si riferisce all’ipotesi in cui dalla liquidazione del patrimonio dell’imprenditore siano ricavate risorse economiche tali da soddisfare i creditori chirografari in misura inferiore rispetto a quanto indicato nella proposta.
Si può ritenere, senza alcun dubbio, che il grave inadempimento si verifichi qualora il proponente abbia garantito una percentuale minima di soddisfazione ai creditori e la liquidazione non ne consenta il raggiungimento; allorché, invece, abbia messo a disposizione dei creditori il proprio patrimonio, indicando le possibili percentuali di soddisfazione, sulla base dei valori economici attestati (cfr. Cass., 14 marzo 2014, n. 6022 sulla assenza di necessità per il debitore di garantire il pagamento dei creditori in una percentuale prefissata), si deve ritenere che egli abbia trasferito l’alea della liquidazione sui creditori.
Questa seconda tesi, tuttavia, si riferisce all’ipotesi in cui dalla liquidazione del patrimonio dell’imprenditore siano ricavate risorse economiche tali da soddisfare i creditori chirografari in misura inferiore rispetto a quanto indicato nella proposta.
Si può ritenere, senza alcun dubbio, che il grave inadempimento si verifichi qualora il proponente abbia garantito una percentuale minima di soddisfazione ai creditori e la liquidazione non ne consenta il raggiungimento; allorché, invece, abbia messo a disposizione dei creditori il proprio patrimonio, indicando le possibili percentuali di soddisfazione, sulla base dei valori economici attestati (cfr. Cass., 14 marzo 2014, n. 6022 sulla assenza di necessità per il debitore di garantire il pagamento dei creditori in una percentuale prefissata), si deve ritenere che egli abbia trasferito l’alea della liquidazione sui creditori.
In tale ipotesi, dunque, la corretta informazione dei creditori e la sussistenza delle qualità indicate dei beni messi in liquidazione sembrerebbero impedire la possibilità di configurare un inadempimento, allorché dalla vendita dei beni – attualmente resa particolarmente difficile dalla situazione del mercato immobiliare – non si ricavi l’importo previsto.
D’altronde, data la natura negoziale del concordato può ritenersi esistente un inadempimento solo in quanto sia stato posto in essere un comportamento difforme rispetto alla proposta concordataria: in altri termini, nel concordato con cessione dei beni, si potrebbe ritenere che non vi sia inadempimento allorché i creditori no siano pagati ovvero non lo sono nelle percentuali (orientative) indicate, purché vi sia coincidenza rispetto al contenuto della proposta concordataria, oggetto di valutazione e votazione.
Se, pertanto, l’imprenditore non ha garantito una percentuale minima ai creditori, vi sarà inadempimento solo in quanto non abbia eseguito le attività e liquidato (o messo in liquidazione) i beni; né appare condivisibile l’orientamento giurisprudenziale (Corte di Appello di Genova cit.) che assimila i rilevanti scostamenti tra il prospettato e l’ottenuto in termini di mancanza delle qualità essenziali, si da consentire l’applicazione dell’art. 1497 c.c., data l’estraneità della disciplina de qua all’istituto concordatario.
Le stesse ragioni che inducono l’opinione dominante a non ritenere necessaria la componente soggettiva dell’inadempimento per l’accoglimento della domanda formulata ai sensi dell’art. 186 l.f. (cfr. Cass., 20 giugno 2011, n. 13446), valgono per negare campo alle tesi evoluzionistiche di applicazione analogica di discipline privatistiche al concordato (tali argomentazioni impediscono altresì di richiamare l’art. 1984 c.c., come prospettato dal Tribunale di Milano con decisione del 28 ottobre 2011 in www.ilcaso.it ovvero la risoluzione del concordato per impossibilità sopravvenuta.
La citata natura ibrida dell’istituto (caratterizzata dalla necessità di provvedimenti giudiziali di vaglio della ammissibilità e di omologazione, vincolante per le minoranze dissenzienti) giustifica l’autosufficienza della disciplina fallimentare, senza consentire la mutazione di istituti non previsti della legge fallimentare.
Quanto premesso sconta, tuttavia, la considerazione che il concordato preventivo è ontologicamente funzionalizzato alla soddisfazione dei creditori, sicché deve affermarsi che qualunque sia la proposta concordataria, implicitamente vi è l’obbligo di soddisfare i creditori chirografari in qualche misura.
Se, infatti, questa obbligazione non fosse implicitamente contenuta nella proposta, il Tribunale dovrebbe dichiarare la inammissibilità della stessa, in virtù di quanto statuito dalla Suprema Corte a Sezioni Unite (sentenza 23 gennaio 2013, n. 1521).
Pertanto nel caso di specie, posto che dalle previsioni operate dal liquidatore emerge che in nessun modo potrà essere soddisfatta la massa creditoria chirografaria, oltre a non trovare integrale soddisfazione nemmeno quella ipotecaria, deve accettarsi il grave inadempimento con accoglimento della domanda di risoluzione, quantunque il termine di 36 mesi previsto per l’esecuzione del concordato non sia ancora decorso (cfr. Cass., 20 giungo 2011, n. 13446; Tribunale di Monza, 13 febbraio 2015 in www.ilcaso.it: “Come avviene nel concordato con cessione dei beni, anche in quello con continuità aziendale diretta la risoluzione può essere richiesta dai creditori e pronunciata dal tribunale prima della scadenza del termine previsto per il pagamento dei creditori, quando dall’analisi dei risultati della gestione economica dell’impresa sia evidente la mancata realizzazione degli obiettivi del piano e sia probabile, in base ad una ragionevole previsione, rimessa al prudente apprezzamento del giudice, che la proposta non potrà più essere adempiuta”;
Tribunale di Genova, 26 giugno 2014 in www.unijuris.it: “ Ai fini della risoluzione del concordato preventivo con cessione di beni e della conseguente apertura della procedura fallimentare non è necessario attendere la fine della liquidazione, laddove emerga, secondo il prudente apprezzamento del giudice di merito, che esso sia venuto meno alla sua funzione, essendo le somme ricavabili dalla vendita dei beni ceduti risultate insufficienti a soddisfare una frazione non simbolica dei creditori chirografari ed integralmente i privilegiati. L’impossibilità di addivenire ai pagamenti come previsti nel piano integra infatti un inadempimento di non scarsa importanza, a maggior ragione qualora la prosecuzione del concordato non sembri offrire migliori prospettive di soddisfazione per i creditori rispetto alla procedura fallimentare”).
Alcun rilievo pare, invece, potersi dare alla prospettata applicazione dell’art. 173 l.f. alla fase successiva alla omologazione (quantunque lasci irrisolvibili dubbi ermeneutici il contenuto dell’art. 185, V comma l.f. come novellato dal d.l. n. 83/2015, convertito con modificazioni della legge n. 132/2015), data la tipicità degli strumenti di caducazione del concordato previsti per la fase successiva alla omologazione e il tenore letterale della disposizione richiamata destinata alla revoca della ammissione, ontologicamente elisa dalla successiva omologazione.
Alla risoluzione segue anche la dichiarazione di fallimento (ed in estensione, ai fini dell’art. 147 l.f., del socio illimitatamente responsabile posto che l’altro socio è già stata dichiarata fallita), poiché lo stato di insolvenza è non solo oggetto di confessione nell’ambito della proposta concordataria, ma indiscutibilmente accertato dagli esiti della procedura concordataria (mentre i requisiti soggettivi di fallibilità e la competenza territoriale sono già stati oggetto di vaglio in sede di ammissione alla procedura concordataria).
P.Q.M.
A) ACCOGLIE la domanda di risoluzione della procedura concordataria e per l’effetto dichiara la risoluzione del concordato presentato dalla
B) dichiara il fallimento della
con sede legale a nonché del socio illimitatamente responsabile nato a residente a .